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Il tradimento sui social network può essere portato in tribunale: le insidie dell'era digitale

Davide Locano
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Lo sappiamo tutti: Mark Zuckerberg ha inventato la piattaforma Facebook nella sua stanza dell'Università di Harvard per permettere agli studenti di socializzare, creare una rete di amicizie, conoscenze e amori. Ha funzionato. Anche una volta portato fuori dall'Università, lo scopo di Facebook è rimasto lo stesso. Così gli incontri online, e spesso i tradimenti, che si consumano nelle pareti telematiche del social network sono all'ordine del giorno. Amicizie troppo intime e vecchie fiamme rincontrate. Forse, Zuckerberg non aveva nemmeno l'ambizione di causare un cambiamento epocale in quanto a relazioni umane, facilità di incontro, di conoscenza e di evasione dai problemi di coppia. Oggi, e questo è certo, i social network hanno un ruolo determinante e costante nella nostra vita. Anche in caso di separazione e di divorzio. Infatti, Facebook, Instagram e così via sono sempre più spesso portati nelle aule dei tribunali come prova di amori clandestini. E la portata del fenomeno è in crescita. D'altra parte, il tradimento – quello offline – è da sempre la principale causa di separazione e divorzio. Era facile intuire che cosa sarebbe successo quando nuovi incontri, conoscenze e distrazioni sarebbero diventati, per tutti, quotidianità. I professionisti (giudici e avvocati) che operano nell'ambito del diritto di famiglia, si sono così interrogati sulla possibilità di utilizzare le foto, le conversazioni in chat o gli altri elementi estrapolati dai social network quale prova del tradimento sulla quale, eventualmente, fondare la domanda di addebito della separazione. La risposta è sicuramente positiva per quanto riguarda i post e le fotografie pubblicate, anche quando sono visibili solo da un numero ristretto di persone (cioè quando le impostazioni dell'account sono “chiuse”). La Corte di Cassazione ha argomentato questo orientamento, specificando che le condivisioni e le foto sui social network costituiscono informazioni rese volontariamente pubbliche e accessibili. A prescindere, ovviamente, da quanto “scottanti” siano i documenti che, tuttavia, in alcuni casi, possono non essere – da soli – sufficienti a provare il tradimento. Più complessa la situazione se il “tradimento online” viene scoperto grazie a messaggi in chat (whatsapp, messaggi privati, chat di Facebook e così via). Secondo alcuni giudici, quello che non si può ottenere è che il tribunale ordini alla parte asseritamente traditrice di mostrare tutte le conversazioni o, in generale, la propria messaggistica privata. Questo perché i messaggi sono coperti da privacy che neanche il giudice civile può ignorare e violare. Ma se le conversazioni sono state scaltramente scovate dal partner? Sul punto la maggior parte dei tribunali, da ultimi Roma e Torino, hanno ammesso questa documentazione come prova del tradimento. I giudici hanno fondato la decisione sostenendo che, in caso di coabitazione e di condivisione di spazi e strumenti, la possibilità di entrare in contatto con dati personali dell'altro è del tutto probabile e si traduce in un affievolimento della sfera di riservatezza. Decisione ragionevolmente al passo con i tempi e con il tipo di relazioni e di incontri al quale tutti, oggi, indistintamente (anche se non per forza maliziosamente), prendiamo parte. In conclusione, prestiamo attenzione all'era digitale e ai social network dove raccontiamo crisi di coppia e insicurezze. Se, da un lato, relazioni e rapporti facili “pescati” su Facebook ci garantiscono il senso dell'evasione; dall'altro bisogna prestare attenzione perché è facile essere smascherati dal partner e, un buon avvocato, può sempre dimostrare che proprio quel “tradimento 2.0” ha causato l'irrimediabile fine del matrimonio. di Marzia Coppola  Avvocato studio BdP [email protected]

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