Sanremo 2024? Così l'ha sinistra l'ha reso il tempio sacro del ribellismo benpensante
Il Festival di Sanremo è ormai diventato qualcosa di più e di diverso da una kermesse canora. È una sorta di ricorrenza “sacra” del “calendario civile” italiano. La presenza, l’anno scorso, del presidente della Repubblica ha come sancito ufficialmente questa metamorfosi. Come un po’ tutte le date di quel “calendario”, anche Sanremo è stata monopolizzata con il passare degli anni da quella “ideologia italiana” che si è sempre più orientata a sinistra. La conquista di Sanremo da parte della sinistra non è stato però un processo lineare, né sono mancati dubbi e perplessità. Gli intellettuali comunisti, e forse ancor più i “compagni di strada” di formazione azionistica, hanno visto all’inizio nel Festival, da una parte, una sorta di “distrazione di massa” dai problemi sociali e morali del Paese, e, dall’altra, il trionfo di una Italia bigotta e provinciale, chiusa nel proprio “piccolo mondo antico”. Quell’Italia che, all’occhio dei comunisti, era rappresentata dalla Democrazia Cristiana. Ovviamente, per quanto gli intellettuali fossero nel Partito molto considerati come “avanguardia del proletariato”, secondo la vecchia idea leninista, l’anima nazional-popolare non mancava. Il “popolarismo”, impersonato da Togliatti ed erede di un certo Gramsci, prestava comunque attenzione ai fenomeni di impatto popolare, compresa la cultura pop. Lo faceva però più per trovare risposte diverse dal Festival alle domande di intrattenimento delle masse che non per assaltare la cittadella sanremese così come si era fatto con le “casematte” della cultura “alta” (accademia, editoria, fondazioni, ecc. ecc.).
DISPREZZO E INDIFFERENZA
Con gli anni Sessanta questo distacco degli intellettuali di sinistra da manifestazioni futili e “piccolo borghesi” come Sanremo si traduceva in disprezzo, o almeno indifferenza. Eppure le canzoni allegre e semplici che il Festival consacrava al successo diventavano il tormentone di larga parte di un’Italia affluente che, in pieno boom economico, voleva vivere con spensieratezza e gioia la propria vita. Certo, echi della contestazione giovanile, che intanto maturava, giungevano anche nella città dei fiori, ma quel mondo in fermento aveva come riferimento altre canzoni e un’altra idea del cantare, non intrattenimento ma impegno politico. È così che nacque il mito del cantautore, che si affermerà negli anni Settanta. Se non avevi certe credenziali non eri ammesso in quello che ormai, sull’onda dell’avanzata elettorale dei comunisti, diventava un circuito mediatico-canoro sempre più forte e alternativo a quello classico di cui Sanremo era specchio. Con una certa spocchia si guardava a sinistra a quelle che erano viste come “solo canzonette”, alle quali si opponevano prodotti di qualità artistica spesso notevole ma che disegnavano un mondo diverso. In sostanza, si separava l’universo dei “migliori” e accreditati da quello delle tante “casalinghe di Voghera” tutte protese a seguire i sempliciotti sogni d’amore cantati a Sanremo. Arrivati gli anni del “riflusso”, anche a sinistra, fra gli intellettuali, ci fu una riabilitazione della cultura popolare, che trovò espressione ad esempio nelle ricerche sociologiche di un Alberto Abruzzese o in eventi sperimentali come le “estati romane” promosse da Renato Nicolini (e più tardi nelle pagine dell’Unità di Walter Veltroni).
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Che a livello di un certo “ceto medio riflessivo” questa “riabilitazione” fosse un’ulteriore manifestazione di snobismo antipopolare e di autocompiacimento intellettualistico, non è dubbio. Si era passati da «Sanremo non lo vedo perché non ho nemmeno la televisione» a «non posso perdermi Sanremo perché c’è il cantante x» (normalmente il più banale e trash, adatto a épater le bourgeois). Ma la vera rivoluzione nel mondo della pop music, e quindi di Sanremo, doveva arrivare con la metamorfosi del cantante medio avvenuta negli ultimi decenni. Da semplice chansonnier, costui si è trasformato in un veicolatore di suggestioni, stili di vita, sottoculture. La qualità delle canzoni è passata in secondo piano, quasi un optional, un “residuo”: l’importante è trasmettere i messaggi giusti. Quali messaggi? Quelli della cultura woke, cioè del falso ribellismo che è il nuovo volto del conformismo. Una “cultura” che fa contenti sia il mercato sia la sinistra. A questo punto la “castigata” Sanremo di un tempo può accogliere, in nome di una ribellione “normalizzata”, anche il bacio omo e il sesso simulato di Fedez. La vera “trasgressione” oggi sarebbe che a Sanremo qualcuno cantasse, per così dire, i valori della famiglia o della tradizione. Ma sarebbe proibito. Non fosse altro che per il polverone che alzerebbero i “benpensanti” del “pensiero corretto” un tanto al chilo.
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