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Carolina Kostner, squalifica (quasi) finita: "Schwazer e Olimpiadi, le mie verità"

Andrea Tempestini
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Immaginatevela ai fornelli, Carolina Kostner. Senza pattini, ghiaccio né lame. «Adoro cucinare». Lo dice con voce ferma, spazzando via per un istante tutta la sua timidezza. «È un momento di pace. Non è proprio meditazione, ma la tua mente si riscatta. Ti concentri solo su quello che fai, non pensi ad altro, ai tuoi impegni». Già, perché se una ragazza che ha costruito un pezzetto di storia dello sport estremizzando il concetto di equilibrio, per sua natura, della concentrazione non può fare a meno, almeno quando cucina degli impegni preferisce scordarsene. E quel momento «lo adoro». Il punto è che se le chiedi quanti sacrifici ha fatto per diventare «la Kostner», lei fa spallucce e ti fa capire che la domanda è sbagliata. «Un grande allenatore mi ha detto che nello sport non esistono sacrifici, ma solo impegni. Lo fai se lo vuoi». Sarà banale, ma tant'è. Impegno dopo impegno, medaglia dopo medaglia, è diventata il pattinaggio artistico in Italia. Ma un giorno l'angelo del ghiaccio è atterrato nel fango. Gli «impegni» cancellati, tutti quanti, e la cucina non c'entrava niente. Fermata per doping. Non il suo, ma quello di Alex Schwazer, l'ex fidanzato. «Colpevole di complicità», e chissenefrega se «amore onorato, né vergogna né peccato». Alla fine è stata assolta anche dall'accusa di «omessa denuncia», ma ha pagato lo stesso. Un prezzo salato. Ricorsi e appelli per stabilire che i pattini non li avrebbe calzati per un anno. Dodici mesi senza «impegni». Una squalifica che tra pochi giorni, il 31 dicembre, verrà riposta nel cassetto dei brutti ricordi. Fammi un bilancio di questo 2015... «È stato un anno davvero duro, non c'è stato nulla di semplice. Però questi mesi mi hanno permesso di maturare, di cambiare». Ora è finita, o quasi. «Vedo il termine della squalifica. Ringrazio chi mi ha aiutato, guardo avanti e chiudo completamente questo capitolo. Percepisco una leggerezza che mi dà entusiasmo: mi sento davvero bene, posso tornare alle cose che amo fare». Io, però, devo rimestare il passato. Hanno riconosciuto che ignoravi cosa facesse Schwazer e che eri estranea al doping. Eppure è andata come è andata. Ti hanno punito in modo eccessivo? «Non so. Di sicuro è stato uno choc dovermi giustificare da quelle accuse: io col doping non avevo nulla a che fare, non ho mai preso mezza scorciatoia. Questa storia, però, mi ha fatto riflettere molto: dagli errori si possono imparare molte cose». Mi parli di errori: se tornassi indietro faresti qualcosa di diverso? «Col senno di poi è troppo facile. Forse, come atleta, avrei dovuto evitare di farmi coinvolgere dai sentimenti. Ma non è semplice...». Ora torni in pista: la prossima gara? «Non lo so ancora». Non sai neppure se vai ai Mondiali? «Esatto, stessa cosa (ride, ndr)». Delle Olimpiadi, allora, non te lo chiedo neanche... «Sicuramente non posso prendere oggi una decisione per il 2018. Però...». Però? «Ecco, l'Olimpiade è un appuntamento che a qualsiasi atleta dà un entusiasmo e una motivazione unica». Messaggio ricevuto. Immagino che dia anche una gioia unica, e credo che quel bronzo a Sochi sia stata la tua più grande soddisfazione. Sbaglio? «Di sicuro quella medaglia rappresenta la vittoria nella battaglia con me stessa». Cosa hai provato? «Stare lì in mezzo alla pista, dopo aver fatto la migliore gara della vita, come lo sognavo da anni, è stata un'emozione che sinceramente non so descrivere a parole. Sarei disposta ad aspettare altri 20 anni per riprovare quella sensazione». Hai zittito chi diceva «tanto Carolina cade sempre»... «Ero più giovane, quegli attacchi mi toccavano nel profondo. Ti impegnavi, uscivi dal letto quando i tuoi amici ci restavano tutto il giorno e anche tu avresti voluto farlo. Poi alle 7 del mattino ti trovavi sola, in palestra, a provare e riprovare. Magari facevi il salto perfetto, ma nessuno lo poteva vedere. Poi venivi giudicata solo per quell'attimo, per una caduta, da chi di te non sa nulla». È che il tuo è uno sport «brutale»: per quattro minuti non puoi sbagliare nulla… «Magari fosse solo quello! Lo devi anche far sembrar facile. Non significa solo sorridere ai giudici. I salti li sappiamo fare tutti, ma farli sembrare semplici no». E quando smetti cosa farai? «È una domanda difficile. Negli Stati Uniti, per esempio, ci sono diversi progetti per aiutare gli atleti, anche di altissimo livello, a fare questo passaggio». Mi stai dicendo che hai paura di smettere? «No, però non sarà semplice. Sai, lo sport è più di un lavoro: non puoi staccare alle sei, lasciare i fogli sulla scrivania e pensarci il giorno dopo. Te lo porti dentro dalla mattina alla sera. Per questo credo che non lascerò mai il pattinaggio». E allora, cosa farai? «Prima di spiegartelo posso raccontarti un aneddoto?». Devi... «Avevo 15 anni, l'esordio ai mondiali. Agli allenamenti per la prima volta mi sono trovata davanti ai miei idoli, quelli che avevo visto soltanto in tv. È stato un impatto fortissimo, mi ha paralizzato. Nel vero senso della parola: mi sono attaccata alla balaustra della pista e non riuscivo più a muovermi. Ecco, quando smetterò vorrei diventare la persona di cui avrei avuto bisogno». Me lo spieghi meglio? «Per arrivare a certi livelli, da piccola, ho dovuto trasferirmi all'estero. In Italia era più difficile, lo è ancora. Insomma, quando smetterò vorrei trasmettere la mia esperienza alle nuove generazioni, costruire qualcosa qui. Ci sono un sacco di bimbi che vorrebbero pattinare, ma non le strutture. I talenti non devono più andare all'estero per inseguire i propri sogni». Come invece hai fatto tu... «Quando mi sono trasferita in Germania avevo 14 anni». È stato difficile lasciare mamma e papà? «È stato un grandissimo impegno (impegno, non sacrificio, ndr), per me e per la mia famiglia. Però ho vissuto quel momento come una liberazione, mi sentivo rinchiusa in una gabbia». Prego? «Non fraintendermi...è che in Italia non potevo praticare il mio sport come lo sognavo. I miei genitori hanno avuto il coraggio di lasciarmi andare». Meglio così. Ma il fatto che tu sia nata sportivamente in Germania te lo hanno rinfacciato. Nel 2006, quando sei stata portabandiera alle Olimpiadi di Torino, dicevano che non era giusto perché «non parla neanche l'italiano»... «Avevo 19 anni, molte cose neppure le capivo. Scrivevano che non avevo l'esperienza per quel ruolo e mi hanno anche minacciato, mi hanno detto che me l'avrebbero fatta pagare. Però so di essere cresciuta da italiana. E col tempo credo di avere dimostrato di avere le carte in regola per portarla, quella bandiera...». Torniamo ancora più indietro nel tempo: la prima volta che hai messo i pattini? «Mmmh...sai che non me la ricordo?». Davvero? «Davvero. Ero piccola piccola...». La prima grande gioia sui pattini? «Quella la ricordo bene. È stato quando ho pattinato in maschera sul ghiaccio, a Ortisei. Dopo il Natale, da bambina, il Carnevale era il momento che attendevo con più ansia». Sei timida e riservata. Ti dà fastidio la popolarità? «Essere famosa permette di dare un esempio, forse una speranza a chi fa il mio sport. Però ci sono dei momenti miei, magari quando vado a fare la spesa o sono con gli amici, in cui non vorrei neppure avere la preoccupazione di essere riconosciuta». Nel tuo tempo libero che fai? «Mi piace l'arte. Mio nonno è stato direttore dell'accademia d'arte di Ortisei, forse ce l'ho un po' nel sangue. Ora sono spesso a Roma, e se ho un po' di tempo passeggio per la città, ci sono posti meravigliosi da scoprire, in ogni angoletto. Poi adoro la montagna, sono cresciuta lì, è il posto dove io…sono veramente io». Il tuo viaggio più bello? «In macchina, con un'amica canadese, dalla California fino su a Edmonton. È stato spontaneo, semplice. Però, forse, il viaggio più bello è quando torno a casa». Ti manca? «Sì. Sono sempre lontana. Sempre». intervista di Andrea Tempestini @anTempestini

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