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Tristezza e miseria: perché l'Argentina di Messi sembra quella di Soriano

Davide Locano
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Chissà cosa avrebbe scritto del campione triste Lionel Messi, Osvaldo Soriano, l'autore argentino di uno dei più bei libri di sempre sul pallone, Fútbol. Storie di calcio (Einaudi). Forse sarebbe stato impietoso nel confrontarlo con Diego Armando Maradona, il talento che Soriano scoprì in tempi non sospetti, nel 1979, suggerendo al collega Giovanni Arpino di proporlo al Torino perché «questo ragazzo di 18 anni è il più grande giocatore degli ultimi 30 anni. Poi non dite che non vi avevo avvertito». E chissà cosa avrebbe scritto, Soriano, della deprimente spedizione della Selección in Russia rapidamente giunta al capolinea e del mister Jorge Sampaoli, e se mai lo avrebbe paragonato al suo anti-eroe letterario, il ct Peregrino Fernandez, sgangherato mister argentino e profeta incompreso: un giramondo, passato ad allenare dalla Francia della Terza Repubblica all'Italia fascista fino alla Russia di Stalin, che aveva trovato la formula perfetta del suo calcio-spettacolo: «giocare in 12», per fregare l'avversario. Leggi anche: Russia 2018, il libro che riporta i tedeschi in paradiso Non si sa se oggi, a vent'anni dalla sua prematura scomparsa, sarebbe stato ancora interessato al pallone, Soriano: lui grande tifoso del San Lorenzo de Almagro, la stessa squadra di Papa Francesco, e grande centravanti mancato, visto che un incidente gli aveva impedito di proseguire la carriera e lo aveva costretto a diventare cronista sportivo e a «scrivere stupidate», come gli disse in tono sprezzante un suo ex allenatore. Ma con ogni probabilità Soriano non avrebbe inserito questa Argentina nel suo catalogo delle grandi nazionali perdenti e divenute immortali, come l'Ungheria '54, l'Olanda '74 o il Brasile '82: formazioni gloriose cui mancò la fortuna ma non il valore; squadre trascinate dai loro campioni, i Puskás, i Cruijff, i Falcao, ma non da quelli dipendenti, come è capitato alla Selección, succube di Messi, delle sue pause e del suo ego ingombrante. No, non avrebbe trovato epica in questa Argentina, perlomeno non l'epica cavalleresca degli eroi sconfitti; né avrebbe trovato, Soriano, materia di canto nel calcio odierno, così «triste, solitario y final», per citare il titolo di un altro suo libro, vittima della «miseria interna dei dirigenti, delle istituzioni» e dei procuratori. La poesia del calcio, sosteneva lui, può rinascere solo in strada, nelle periferie, lontano dalle luci dei riflettori e dal luccichio del denaro. Per dirla con un altro grande scrittore argentino, Jorge Luis Borges, «la storia del calcio ricomincia ogni volta che un bambino prende a calci qualcosa per la strada». di Gianluca Veneziani

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