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Vittorio Feltri: "Ci hanno rubato anche il Giro d'Italia, più scemi non si può"

Vittorio Feltri
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E  così ci hanno derubato anche del Giro d'Italia che quest'anno funestato dal virus non si disputerà per evitare altri guai sanitari. Lo so, dobbiamo rassegnarci pure a rinunciare ad un evento mitico e storico: una disfida che, per quanto invecchiata sotto il peso della modernità, non ha smesso di appassionare il pubblico delle generazioni mature, memori di imprese eroiche compiute pigiando i pedali con vigore ormai inusitato. Non vedremo in televisione il gruppo dei corridori inerpicarsi come un serpentone lungo i tornanti delle Alpi, le fughe solitarie di questo o di quel campione intento a guadagnarsi la maglia rosa. I girini appiedati lasciano un vuoto nella nostra fantasia di tifosi orfani della loro spettacolare fatica.

Forse è il segno dei tempi: niente calcio e zero ciclismo. Ci rimangono a titolo di magra compensazione le chiacchiere noiose e ripetitive dei bischeri che si cimentano nei dibattiti dei talk-show più tediosi e squalificati, condotti da signore e signori isterici nonché privi di equilibrio dialettico. Pazienza. Ci sia almeno concesso di rimpiangere le gare all'ultima stilla di sudore che caratterizzarono i Giri del tempo che fu. Mi riferisco, per esempio, alla competizione del 1949.

Ero un bimbo ma ero in grado di usare la radio, mi sintonizzai sulla cronaca sportiva in onda nel primo pomeriggio, quando i ciclisti avevano quasi ultimato la tappa e si accingevano a tagliare il traguardo. La voce era quella di Mario Ferretti, inimitabile narratore sportivo. Diceva testualmente: «C'è un uomo solo al comando, la sua maglia è bianco-celeste, il suo nome è Fausto Coppi». Una frase esaltante, sembrava scolpita nel marmo e destinata a non tramontare mai, benché con il trascorrere dei decenni sia stata adoperata per definire i golosi di potere, del tipo di Giuseppe Conte: un uomo solo al comando. Roba da matti.

L'uscita felice di Ferretti è comunque rimasta impressa a tutti i coppiani che seguirono la tappa Pinerolo-Cuneo, vinta dal campionissimo che si aggiudicò il trionfo finale della corsa tricolore, la quale segnò il ritorno dei connazionali alla leggerezza dopo la tragedia bellica. All'epoca il ciclismo era qualcosa di più di una disciplina sportiva, anche perché la bici era il mezzo di trasporto più diffuso e chiunque conosceva lo sforzo che con essa comportava la locomozione. Per lustri questo sport oggi declinante fu importante quanto il football ai fini dell'aggregazione sociale. La rivalità pulita e spavalda tra Coppi e Bartali segnò l'apice dell'entusiasmo popolare, la gente era divisa equamente tra tifosi del primo e del secondo. Le discussioni nei bar vertevano quasi esclusivamente su questo tema. A proposito di Bartali, io pur essendo coppiano ho sempre amato il grande Gino la cui generosità d'atleta e di persona non può che essere celebrata. Non dimentichiamo che costui salvò decine di ebrei durante la guerra, sottraendoli con astuzia e coraggio al campo di concentramento. Grazie a lui il ciclismo divenne una scuola di etica elevata.

Quelli della mia veneranda età non possono non aver ammirato una fotografia che ritrae i due antagonisti mentre l'uno consegna all'altro, durante una scalata, la borraccia. E non si è mai capito se fosse Coppi a porgerla a Bartali o viceversa. In ogni caso questa immagine rimane il simbolo di una solidarietà eccezionale. Il Giro in epoche lontane fu seguito da giornalisti e da scrittori di prima fila: Dino Buzzati e Indro Montanelli, per citarne soltanto due. I loro scritti - come quelli di Brera - erano epici e interpretavano il desiderio generale dei cittadini di vivere lo sport non come una evasione, bensì quale valore immenso del sacrificio che accomunava il proletariato e la piccola borghesia, intente entrambe le classi a sbarcare il lunario.

La società di quell'era è andata avanti pigiando sui pedali, dato che gli scooter erano rari e le automobili appartenevano a pochi ricchi. Perfino io nel 1989 fui incaricato dal Corriere della Sera di narrare le vicende del Giro. Non fu facile per me calcare le orme dei colleghi che mi avevano preceduto nell'incarico. Mi sforzai ottenendo risultati solo decenti. Ma mi capitò di conoscere Bartali impegnato a osservare i migliori giovani della disciplina sulle due ruote. In un paio di circostanze pranzammo insieme. Gino mangiava come un leone e ad ogni pasto si trincava una bottiglia di rosso, e io per non sfigurare gli tenevo testa. Gli piaceva rammentare le proprie avventure non solo ciclistiche. Era un conversatore colorito, mai noioso o autocelebrativo. Un individuo rude e dolce che parlava del ciclismo come di una missione.

Quel giro del 1989 fu vinto da Fignon, al secondo posto si piazzò Giupponi, orobico come me. Allorché rientrai in redazione dopo la lunga trasferta, il direttore Ugo Stille mi chiamò nel suo ufficio e mi notificò un aumento di stipendio. L'unico della mia vita professionale. Stille era un appassionato di biciclette. Godeva pure solamente a discuterne. Per concludere: fanno mille piste ciclabili a Milano e non solo, ma eliminano il Giro d'Italia. Più scemi non si può.

 

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