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Euro2020, la Nazionale sta rivoluzionando anni di fastidiosi preconcetti

Claudio Savelli
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Facciamolo dire agli altri che la nostra Nazionale è un modello. All'Équipe, ad esempio, quotidiano francese orfano della nazionale favorita: «La leçon d'italien», ha titolato all'alba della vittoria azzurra sul Belgio, «La lezione di italiano». La squadra di Roberto Mancini- squadra, sì- «domina» la selezione di Martinez e, di riflesso, l'Europa e il mondo, se è vero che quest' ultima è prima nel ranking, che non significherà tutto ma qualcosa vorrà pur dire (ad esempio che i Diavoli Rossi hanno perso cinque gare dal 2016 a oggi, giusto per misurare l'impresa). Non ha ancora vinto nulla, l'Italia, ma ha gli occhi del continente addosso. Ha gabbato i più scettici, come Patrick Vieria («Non arriverà in fondo, ha giocato solo contro avversari deboli») o Gary Neville («È presto per prendere in considerazione gli azzurri, non saranno all'altezza»), e fatto ricredere gli invidiosi come Gary Lineker, ex bomber inglese oggi opinionista di punta della BBC, che aveva sentenziato «l'Italia è tornata l'Italia» durante la sfida all'Austria, come a dire che il calcio offensivo visto fino a quel momento era un'illusione, una casualità. E invece con il Belgio si è vista la miglior versione degli azzurri, quella che serviva per suggellare il ritorno tra le grandi del pianeta. La nuova Italia era già nata, a Monaco si è semplicemente compiuta. In tre anni, Mancini ha ribaltato oltre cento anni di storia. Ha chiesto tutto il contrario delle abitudini del nostro calcio, radicate nel dna dei 60 milioni di ct: è come se avesse bestemmiato a San Pietro. Ha avuto la fortuna - e la bravura di accorgersene - che la chiesa era sconsacrata.

 

 

Nessuno nel 2018, dopo la Svezia, credeva più nel calcio della Nazionale. Tre anni dopo l'Italia è la nuova Spagna del 2010 (quella di martedì sarà diversissima, alla ricerca di sé), la nuova Germania del 2014, un'idea riuscita e invidiata a cui manca solo il trofeo. In questa squadra corre il pallone prima dei giocatori, si difende in avanti anziché indietro, si sbaglia piuttosto che far sbagliare gli altri, si gioca da protagonisti e non più da antagonisti. Cose già viste ma non tutte insieme e non in una nazionale. L'Italia è un modello perché si è ricostruita dall'alto al basso, dalla Nazionale alle giovanili, da Mancini in giù, tutto il contrario di come suggerisce il manuale della buona federazione.

 

 

Di più: senza ispirarsi ai club, ma piegando ad un pensiero comune e condiviso le loro migliori sfumature (il ritmo dell'Atalanta, gli strappi dell'Inter, la vecchia consapevolezza della Juve, il governo del Sassuolo, i princìpi del Napoli di Sarri). L'Italia ha avuto anche la capacità di non specchiarsi nel suo gioco una volta trovato: il pragmatismo è l'unico retaggio del nostro calcio, il più buono, il più utile. La bellezza del gioco non è un fine né un mezzo, è la conseguenza di un modo di essere che piace a tutti coloro che lo interpretano e a loro è adatto. Non c'è azzurro fuori dallo schema. Di solito sono i calciatori migliori a crearlo per la nazionale, stavolta il ct ha elaborato uno spartito dopo aver selezionato gli interpreti migliori. Gli altri hanno sposato la causa, intravedendo nella nazionale un'occasione di felicità. Hanno voluto viverla, per questo giocano come Italia comanda.

 

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