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Tourist Trophy, la gara maledetta: come è morto un pilota nelle prove, ecco le cifre della strage

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Tommaso Lorenzini
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I moderni Ulisse sono piloti di moto da 200 cavalli strizzati dentro tute di pelle, le loro sirene cantano attraverso il rombo del motore che li lancia a 250 all'ora fra i muretti dell'Isola di Man, o Isola della Morte, fate voi, dove non c'è modo di farsi legare dai compagni perché qui tutti sono preda della febbre della velocità, dipendenti dal brivido, gente che gioca a dadi con il destino sapendo al tempo stesso che ogni mattina potrebbe essere l'ultima, ma rifiutandone il concetto per esorcizzarlo. «Vai in giro pensando: "Dovremmo essere in prigione"». «Non c'è droga al mondo che ti faccia quest'effetto». «Una missione suicida». Questo scorre nella testa dei piloti mentre abbassano la visiera. Pazzi o amanti della vita tanto da volerne assaporare ogni istante al massimo, qualunque cosa sia in migliaia si ritrovano anche quest'anno sull'isola fra Regno Unito e Irlanda per il Tourist Trophy, corsa tanto fascinosa quanto pericolosa, clamoroso esempio di un passato quasi anacronistico che resiste. Perché mentre in tutti gli sport motoristici l'evoluzione tecnica va di pari passo con quella della sicurezza, qui dal 1907 si continua a dare di gas su strade normali fra marciapiedi, alberi, case e persone, e per salvarsi la pelle ci si affida a qualche balla di fieno e, più che altro, a una bella botta di culo.

 

 

BEVETE ALLA SUA SALUTE
Non ha avuto nessuna di queste due Mark Purslow, 29 anni, caduto e morto mercoledì sera nel corso delle prove nel tratto di Ballagarey. Con lui le vittime diventano 261, erano state due nell'ultima edizione del 2019, prima dello stop per la pandemia. Ma qui non c'è tempo per le lacrime: o si smette di piangere, o si smette di correre. «Divertitevi e bevete alla sua salute», ha fatto sapere la famiglia di Mark. È un mondo a parte, fatto di velocità e nomi leggendari come il 50enne John McGuinness (vincitore di 23 TT); come Peter Hickman (detentore del record sul giro, 60 km percorsi nel 2018 in 16 minuti e 42,7 secondi a una media di 218 km/h); come la famiglia Dunlop: in gara c'è Michael, nipote di Joey, figlio di Robert e fratello di William, tutti e tre morti sull'Isola.

 

 

Chi il TT l'ha amato e odiato è Giacomo Agostini. Ha scritto un libro, con Mario Donnini, gli ha dato un colpo di spugna quando nel 1972 decise di non correrci più dopo la morte del suo amico Gilberto Parlotti e la gara fu tolta dal calendario del Motomondiale su pressione dei piloti. «Non si può cadere: una macchia d'olio, un guasto al motore o ai freni non perdonano quasi mai», racconta Ago a Libero, «a me andò bene una volta: andai giù in una "esse" ma era lenta e mi rialzai». La spietatezza del TT è che «oggi che è aperto a tutti quelli che vogliono andar lì a correre. Le categorie sono svariate ma non fa distinzioni: muoiono campioni o piloti amatori. Il richiamo però è pazzesco, è la Festa del Motociclista. Correre e vincere lì dà sensazioni che non trovi da nessun'altra parte», si esalta Mino, che qui ha trionfato 10 volte, l'ultima proprio 50 anni fa, «sfrecci circondato da 300mila persone, se hai bisogno dell'olio per il motore lo trovi anche in farmacia, la moto la parcheggi nella hall dell'albergo, la polizia ti scorta al paddock». Martedì, a quasi 80 anni (li compie il 16), sarà di nuovo sull'Isola di Man, «ma non per gareggiare, sarò con la mia Mv Agusta Superveloce Ago e porterò a spasso il principe Hassan del Bahrain: gli farò fare un giro al Museo, poi via sul Mountain Course, su tutti i punti chiave. Si divertirà».

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