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Gian Piero Gasperini, antipatico e visionario: è il Guardiola italiano

Claudio Savelli
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Gian Piero Gasperini è l’allenatore che più di tutti, nel nuovo millennio, ha rivoluzionato il calcio italiano. È il nostro Guardiola. Sì, avete letto bene, anche se non ha vinto nulla. Il punto è proprio questo, la rivoluzione di Gasp non è soltanto nel modo di giocar ma anche nella riconsiderazione dei trofei come elemento non determinante per esprimere un giudizio.

Il 3-0 di Anfield e mettiamoci pure il ko per 0-1 nel ritorno a Bergamo contro l’ultimo Liverpool di Klopp; gli ottavi di Champions contro il Valencia nel 2019/20 (4-1 all’andata, 4-3 al ritorno) e mettiamoci pure gli incredibili quarti persi per due reti del Psg nel recupero nell’unica edizione in gara secca a causa Covid; il primo 2-0 ad Anfield nel 2020/21 e mettiamoci pure l’1-0 nel tempio del calcio totale dell’Ajax; e il 5-1 in casa dell’Everton del novembre 2017 da cui tutta l’epopea europea è un po’ cominciata, sono partite, emozioni, ricordi che valgono un trofeo per chi difficilmente vi si è avvicinato, come Bergamo, come l’Atalanta. A questo si aggiunge il lato meno romantico, ovvero la trasformazione dei giocatori sconosciuti in campioni, quindi in soldi che la società può reinvestire nel settore giovanile, nello stadio (gioiello anche per le modalità con cui è stato realizzato) e in nuovi giovani con cui alimentare il ciclo.

 

 

 

Aiutati dal senno del poi, è più facile accorgersi della rivoluzione sul piano del gioco. Non è tanto il modulo ad aver innovato il calcio - Gasp adottava la difesa a tre quando ancora era considerata “a cinque” - ma i principi di gioco. Molto di ciò che oggi è contemporaneo era proposto dal mister 10-15 anni fa. L’elenco di questi principi o meccanismi è lungo e potrebbe occupare tutto lo spazio a disposizione per questo pezzo, ma in breve: prendere l’avversario come riferimento, difendere in avanti come singoli e non solo come reparto, attaccare con tanti uomini che partono da lontano, privilegiare i compiti ai ruoli.

 

 

Va ricordato che Gasperini ha praticato tutto questo nella patria del calcio di reparto. In sostanza ha seminato sul terreno meno fertile in assoluto. Solo ora, in ritardo rispetto a quanto avrebbe meritato, ne raccoglie i frutti (i consensi) e, simbolicamente e per soddisfazione personale, meriterebbe che tra questi frutti ci sia una primizia (un trofeo), sia essa la Coppa Italia (mercoledì il ritorno della semifinale contro la Fiorentina persa 1-0 all’andata, non prima dell’impegno a Monza di domani sera) o, ancora meglio, l’Europa League (contro il Marsiglia, l’Atalanta è favorita). I problemi nella valutazione dell’impatto di Gasp sul calcio sono stati principalmente tre. Il primo è che a molti non sta simpatico. Il secondo è la sua esperienza all’Inter che lo ha etichettato come inadatto alle grandi, anche tra le grandi stesse. Il terzo: non ha mai vinto nulla. Ma qui torniamo al punto di partenza, altrimenti un Di Matteo varrebbe più di Gasperini. Non scherziamo. La verità è che a Gasp bisognerebbe dire “grazie”: se il calcio italiano non produce più un gioco medievale è in gran parte merito suo.

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