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Vittorio Feltri: peggio del Natale 2020 c'è solo il passato, perché le restrizioni di Conte sono nulla

Vittorio Feltri

Gli italiani piagnucolano perché a causa del Covid e di un governo pasticcione hanno dovuto trascorrere il Natale in una situazione di semilibertà, peraltro provvisoria. Comprendo perfettamente il loro malumore. Negozi, bar e ristoranti chiusi, centri abitati semideserti, divieti di circolazione: tutta roba greve, difficile da sopportare per chi era abituato a vivere senza lacci e lacciuoli. Il problema non consiste nella mortificazione delle feste, ma nel senso di impotenza che coglie tutti di fronte ai limiti angusti da rispettare senza discutere. Piovono ordini dall'alto e noi, popolo bue, siamo costretti ad obbedire come bambini dell'asilo Mariuccia. A capo chino rientriamo a casa e non ne usciamo più poiché non sapremmo nemmeno dove andare, essendo le strade vuote, le saracinesche abbassate. Abbiamo la sensazione di essere prigionieri, anzi lo siamo davvero.

A noi vecchi quasi ottantenni o ultra ottantenni le restrizioni carcerarie di cui siamo vittime risultano sopportabili se solo pensiamo a come campavamo nel dopoguerra, quando non eravamo schiavi di Giuseppe Conte da Foggia, bensì della miseria più nera. Negli edifici borghesi erano presenti in ogni stanza i termosifoni, però erano gelidi in quanto mancava la nafta. Il freddo era un nemico imbattibile dalla stufa economica che campeggiava in cucina. La maggior parte dei bimbi e dei ragazzi soffriva di geloni ai piedi. La sera le famiglie si radunavano attorno al tavolo per mangiare una minestrina cucinata col dado, arricchita con una pasta detta "tempestina" o "stelline". Mio fratello maggiore la chiamava "piscetta", dato il colore giallo paglierino. Egli poi, al termine del modesto pasto, si rifaceva addentando una michetta imbottita di stracchino. Io ero seccato perché mio padre volendo ascoltare la radio, specialmente il notiziario, non permetteva a noi fanciulli di parlare. La cena era una sorta di tortura non soltanto per via del cibo scarso e poco appetibile: il vano dove eravamo riuniti era un mortorio, vi scendeva un silenzio angosciante, rotto unicamente dalla voce petulante del radiocronista che narrava vicende a me pargoletto incomprensibili. Trangugiato l'ultimo cucchiaio della "piscetta" bisognava correre a letto, poiché la mattina dopo ci saremmo recati a scuola. Noi tre fratelli riposavamo nella stessa stanza fredda come il Polo Nord e, non avendo voglia di dormire, chiacchieravamo sotto voce per non farci udire dai genitori che ci avrebbero sgridati. Babbo e mamma rimanevano al desco e non ho mai avuto idea di cosa si dicessero.

 

Lavoravano entrambi, ottimi impieghi, nonostante ciò ero convinto fossimo poveri, come la maggioranza delle gente dell'epoca. Il bagno c'era eppure mancava il boiler, il bidet era una specie di trespolo privo di rubinetteria, il frigorifero ignoravamo cosa fosse, in sua vece disponevamo di una ghiacciaia utile soltanto d'estate allorché compravamo il ghiaccio fornito da un tizio che possedeva un carro trainato dal cavallo. Frequentavo la prima elementare e ogni mattina, prima di uscire, mi procuravo un ceppo da portare in classe, indispensabile per alimentare la stufa dell'aula. Tutti gli alunni facevano altrettanto. Quando mio padre morì, morbo di Addison, che oggi si cura in tre giorni col cortisone, il maestro (si chiamava Gamba) dichiarò pubblicamente che ero orfano, e io mi offesi: gli orfani mi stavano antipatici. Tuttavia egli mi regalò un salvadanaio della Cassa di Risparmio e un libretto con un versamento di 500 lire, che orgoglioso consegnai a mia madre la quale si commosse. Dai suoi occhi sgorgarono lacrime.

 

In terza elementare fui costretto al trasferimento di scuola dal momento che ero un rompiballe mostruoso nonostante il mio profitto fosse ottimo, a giudicare dai voti. Il mio nuovo maestro, Natale Dolci, mi prese a cuore e ogni dì, scendendo da Bergamo Alta, si fermava di fronte al palazzo in cui risiedevo allo scopo di caricarmi sul sidecar della sua lambretta e condurmi con sé in classe. Egli è stato il mio vicepadre e mi ha insegnato quasi tutto quel poco che conosco. Decenni dopo andai a trovarlo. Era malato. Vecchio. Stringendogli la mano mi è venuto il magone. Non desidero dilungarmi. Aggiungo solo che, allorché la prima Fiat 600 fece ingresso nel cortile del casermone, tutti gli inquilini scesero dalle scale per ammirare il veicolo. Lo stesso giorno entrò nel mio appartamento un televisore acquistato a rate Confital. Noi fratelli per la prima volta fummo felici. Questa, in sintesi, fu la nostra esistenza di ragazzini sbattuti su un mondo che faceva schifo, ma che abbiamo amato persino nella miseria. Ecco perché oggi di rinunciare alle bischerate di Natale e Capodanno non me ne frega un bel niente.