Femministe schierate

8 marzo, scordate le donne israeliane violentate: l'atroce ideologia anti-sionista

Daniele Capezzone

Quando, con la necessaria distanza temporale ed emotiva, verrà scritta la storia di questi mesi nel nostro Occidente, più di qualcuno avrà valide ragioni per vergognarsi e per tentare di cancellare almeno qualche traccia del proprio comportamento, così come di non poche parole pronunciate.

Pensiamo solo alla condizione delle donne israeliane, anzi – per essere più precisi – delle donne ebree israeliane: per meritare un minimo di rispetto, di considerazione, di ricordo umanamente caldo e sincero, non è bastato neppure che fossero uccise il 7 ottobre dalle belve di Hamas, o che fossero violentate, o che fossero prima violentate e poi uccise, tanto per non farsi mancare nulla.

Nell’atroce “morra” ideologica anti-sionista (ma prima o poi sarà il caso di usare la parola più terribile e precisa: anti-semita), l’essere ebrea prevale sull’essere donna, la connotazione religiosa e nazionale soverchia quella di genere, e dunque – paradossalmente – toglie a quelle persone lo status di vittime o di vittime meritevoli di memoria, pietà, calore.

Un’esagerazione di Libero, che notoriamente è schierato per il diritto di Israele a esistere e a difendersi? Tutt’altro, giudicate voi. Primo esempio: ieri, 8 marzo, si è svolto a Roma l’ormai tradizionale corteo di “Una di meno”, centrato sullo «stop al patriarcato e alle bombe su Gaza». Ecco gli slogan e i principali striscioni: «Insultate, stuprate, ammazzate, ci volete mute, ci avrete arrabbiate. Distruggete il patriarcato». E dal megafono è stata puntualmente scandita la giaculatoria pacifista a senso unico: «Siamo qui per far risuonare il grido delle donne palestinesi e curde».

 

 

 

E le donne israeliane? Sono forse meno vittime, sono forse meno violentate delle altre? Come se non ci fossero: tamquam non essent. E, su un altro piano, le donne nel mondo arabo e islamico, vittime – lì sì – di patriarcato e segregazione? Meglio non approfondire: è più comodo inventarsi qualche scioglilingua sul patriarcato da recitare qui.

Volete un altro caso? Ecco – immancabile – il pensierino dell’8 marzo del mitico Patrick Zaki: «Oggi faciamo (ndr: ha scritto proprio così, “faciamo”) rumore per tutte le donne del mondo. Per Giulia Cecchettin, per Ilaria Salis, per le donne palestinesi che difendono i loro figli dai proiettili e dai missili dell'esercito israeliano, per le donne sudanesi violentate da entrambe le parti del conflitto armato, per le donne ribelli dell’Iran, per le donne del Congo». C’è tutto, tranne le donne israeliane. In uno spettacolare rovesciamento delle cose, compaiono le donne palestinesi, ma solo come vittime degli israeliani, mica del terrore di Hamas, che le considera – al pari di uomini e bimbi, del resto – nulla più che scudi umani e carne da sacrificare.

È più forte di loro, e starei per dire che ormai questi slittamenti concettuali, queste omissioni, questi ribaltamenti avvengono in perfetta buona fede: nel senso che il pregiudizio e l’ideologia sono talmente interiorizzati e “naturali” da non richiedere alcuna malizia o alcuna consapevole cattiva intenzione, che infatti tendo a escludere.

 

 

 

Ecco, contro tutto questo, mi permetterete di rivolgere non solo un pensiero alle grandi dimenticate (e cioè alle ebree israeliane trucidate all’inizio di ottobre), ma anche e soprattutto – ammesso siano ancora vive – alle ebree rapite e tuttora nelle mani degli aguzzini di Hamas.

Alla fine di gennaio scorso, una di loro, Aviva Siegel, rilasciata nel corso del cessate il fuoco di novembre, ha reso una drammatica testimonianza alla Knesset, spiegando come le donne superstiti (e in qualche caso pure gli uomini rapiti) vengano violentate dai carcerieri nei tunnel. Non si tratta di episodi, ma di un “regular sexual abuse”: i rapitori hanno dunque trasformato gli ostaggi in oggetti sessuali.

In sostanza, l’arma disumana dello strupro non è stata solo usata il 7 ottobre o nelle fasi iniziali di quella atroce vicenda, ma è diventato un ordinario passatempo per i carcerieri. Immaginate la condizione delle persone catturate: hanno magari visto coni loro occhi la morte dei loro cari, sanno di essere sole al mondo, non hanno alcuna certezza di uscire vive da questa orribile avventura, e per giunta sono trattate da schiave sessuali delle belve islamiste.

«L’ho visto con i miei occhi», ha aggiunto la Siegel, che poi ha spiegato le modalità umilianti della pratica. I terroristi portano alle ragazze vestiti inappropriati, le vestono come bambole. Hanno trasformato le ragazze nelle loro bambole, con cui possono fare quello che vogliono e quando vogliono». Non c’è molto da aggiungere a un racconto che parla da sé: rapimento, stupro sistematico, irrisione e umiliazione delle vittime. E non oso nemmeno pensare all’ipotesi che alcune di queste donne possano essere rimaste incinte nel corso delle violenze: immaginate la tragedia.

Ecco: tutto questo non avrebbe meritato una menzione, un pensiero, una parola, in occasione dell’8 marzo? Pare di no. Curioso, non è vero? I nostri progressisti e le nostre femministe, che di solito amano descrivere i propri avversari come animati da sgradevolissimo sessismo, stavolta hanno perso la voce. Anche le personalità più impegnate per i diritti civili devono aver finito i giga, e non sono riuscite nemmeno a pubblicare un tweet, un post, un pensierino sui loro social.

Il cortocircuito è totale: Israele è notoriamente l’unico paese libero di quell’area, l’unico dove le donne siano in una reale condizione di parità, l’unico – su un altro piano – dove anche le comunità lgbt siano rispettate e tutelate, e dove la libertà sessuale sia ovviamente parte della libertà senza aggettivi.
Ma qui in Italia e nel nostro Occidente siamo in pochissimi a volerne parlare. Come finirà? Un tragico avviso è giunto ieri sul Telegraph da Robin Simcox, il superconsulente del Ministero degli Interni britannico per il contrasto all’estremismo, che ha messo in guardia dal rischio che Londra stia diventando una “no-go zone” per gli ebrei, cioè un’area ad alto rischio, viste le bravate – tolleratissime – dei fondamentalisti islamici («Gli atti di estremismo sono stati normalizzati», ammonisce Simcox). Noi non siamo ancora a questo livello, ma qualcuno – tra parole e omissioni – ci si sta avvicinando a rapide falcate.