Non si possono lanciare accuse nel vuoto, la Meloni smetta con il complottismo d’accatto e dica chiaramente chi sono i poteri forti che la ostacolano e le lobby che la temono, faccia nomi e cognomi; altrimenti, taccia per sempre. È questo l’argomento forte usato dall’opposizione per controreplicare alle tre ore e passa di conferenza stampa di fine anno tenuta dalla premier in realtà a inizio anno, giovedì scorso. E forse la novità temporale, dovuta a malanni fisici pre e post natalizi, è emblematica del cambio di passo. Uno show, più che un’intervista e giornalisti solo dodici mesi fa aggressivi fino alla prepotenza ridotti a una deferenza autoimposta e mal riscattata con polemiche e recriminazioni a sipario calato. Ma perché Giorgia Meloni dovrebbe fare i nomi di chi le rema contro, se i soggetti in questione sono i primi ad accusarsi, alzando la mano. Il guaio è che si denunciano senza accorgersene, disvelando che la faziosità, se sinistra, non è solo un abito ma è atteggiamento ritenuto naturale da chi lo pratica.
REPUBBLICA DELLE BANANE
Si, ci stiamo riferendo al caso del giudice della Corte dei Conti Marcello Degni, quello che sul suo profilo social si definisce , «di sinistra deluso dai partiti», e che alla Schlein non rimprovera di non farsi capire quando parla o di aver confuso il Capitale con un manifesto del gay pride ma di non sabotare lo Stato mandando il governo in esercizio provvisorio. Ebbene il magistrato affronterà la prossima settimana un tribunale dei suoi pari che lo giudicherà per aver tradito, almeno in apparenza, il principio di terzietà che è il fondamento della sua professione. Con danno non solo per la sua credibilità, ma per tutta l’istituzione perché, visto come ragionano alcuni suoi membri, è naturale che gli italiani prendano d’ora in poi i moniti e le bacchettate della Corte dei Conti con il dovuto distacco, per non dire necessaria perplessità. A riprova che siamo la Repubblica delle banane, e non per chi ci governa oggi ma per i mandarini troppo maturi che però non cascano mai dall’albero che costituiscono la vera classe dirigente, quella dei boiardi con ufficio a Roma che, a differenza dei politici, non scollano mai, si è scoperto che a giudicare il Degni sarà un suo degno sodale, tal Tommaso Miele, presidente aggiunto, magistrato valido, stimabile, imparziale, perfetto nonché cittadino al di sopra di ogni sospetto, altrimenti noto per aver insultato Matteo Renzi. «Voterò convintamente per i Cinquestelle, Renzi è arrogante, presuntuoso, prepotente, incapace e bugiardo. Italiani, ricordatevelo, che non si accosti più a Palazzo Chigi», sentenziò amaro Miele. Per valutarne imparzialità ed equilibrio, aggiungiamo che non risulta che in seguito si sia ricreduto sui grillini né che se la sia mai presa con Di Maio e Conte. Come si dice, tre indizi fanno una prova.
Tanto per chiarire che Giorgia Meloni non ha detto nulla che non sia arcinoto agli addetti ai lavori e a chi segue le vicende della politica nostrana. In Italia esiste uno schieramento, molto più potente, compatto e determinato del Pd, di gestori della cosa pubblica secondo l’interesse privato loro e di chi ne tira le fila che è transitato dalla Prima Repubblica alla Seconda semplicemente cambiando referente politico o, più precisamente, facendosi schermo dietro il partito o il cartello che si è fatto centro, dispensatore e beneficiario, dei principali poteri del Paese, che non risiedono in Parlamento e neppure a Palazzo Chigi.
POTERI OCCULTI
Non è una teoria, non è un complotto, è una fotografia. Questo potere è terrorizzato dal cambiamento e pertanto ha avversato Berlusconi come ora avversa la Meloni e ha combattuto Renzi perché il rottamatore ha provato a cambiare pelle e volti al Pd. Ha trovato un’intesa solo con M5S perché i grillini, statalisti, consci della loro inadeguatezza e privi di storia e prospettiva, gli si sono consegnati dopo due minuti. Non è che uno da Palazzo Chigi possa dire queste cose, o fare dei tweet, come fringuellano i magistrati quando gira loro male. Però può far intendere a tutti di sapere come gira il vento e di non essere disposto a fare il Di Maio, il Conte o il Gentiloni di turno.