L'ultima barricata

Reddito di cittadinanza, M5s pronto a cedere: "Disponibili a discutere", dopo Di Maio anche Fico

Antonio Rapisarda

La crepa delle crepe nella fragile diga grillina, appena visibile a occhio nudo ma dal prevedibile destino, si è aperta. Dopo la riforma Bonafede - seppellita, al di là degli annunci bellicosi, senza barricata di sorta-, il prossimo totem pronto per essere congedato sull'altare del (restare al) governo corrisponde alla misura custodita nel sancta sanctorum dei 5 Stelle: il reddito di cittadinanza. La riforma che ha permesso al M5S di ottenere percentuali irripetibili nel centrosud, costata carissimo alle casse dello Stato (otto miliardi l'anno), e della quale resterà impressa - oltre l'introduzione degli inutili navigator - la balconata sudamericana dei ministri pentastellati convinti così di aver «abolito la povertà».

 

 

 

Generalissimi

Nonostante i proclami di Giuseppe Conte («Non permetterò nemmeno che si arrivi a metterlo in discussione»), ad aprire il cantiere per la destrutturazione del reddito così come è stato (mal)concepito sono proprio i due generalissimi del garante Beppe Grillo: Luigi Di Maio e Roberto Fico. Come è avvenuto sulla conversione garantista, è stato l'ex vicepremier giallo-verde, ormai avanguardia del grillismo riformista, ad avanzare per primo. Di Maio, a domanda, ha aperto alle modifiche del reddito (a partire dalla costruzione di «un patto sul lavoro per aiutare i cittadini a reinserirsi nel mercato») che sanno di primo passo verso il suo superamento. Un'apertura che non si discosta così tanto da uno dei dossier per la ripartenza avanzati dal governo a cui sta lavorando il ministro del Lavoro Andrea Orlando e su cui Mario Draghi ha fatto intendere qualcosa prima della pausa estiva: «È troppo presto per dire se il reddito di cittadinanza verrà riformato, come cambierà la platea dei beneficiari - ha spiegato -. Ma il concetto che c'è alla base del provvedimento io lo condivido in pieno». Un «concetto» che il premier vuole collegato però da un lato a chi è esposto realmente alla povertà (a maggior ragione a chi ha perso il lavoro a causa della pandemia) e dall'altro alle politiche attive del lavoro le quali, secondo l'esecutivo, devono includere la formazione scolastica e la riqualificazione di chi accede allo strumento. Tutt' altra cosa rispetto alle maglie inique del reddito grillino (un esempio su tutti: la beffa dei single che hanno ottenuto in proporzione più dei nuclei familiari) e al buco nero del "welfare to work", ossia l'assenza registrata delle iniziative dirette a incentivare i diritti-doveri dei beneficiari.

 

 

 

Pezzi forti

A rafforzare il fronte dei "riformisti" del reddito è arrivato ieri un altro big, Roberto Fico. Prima ha messo le mani avanti con la difesa d'ufficio («Noi difenderemo strenuamente il reddito non per salvare una bandiera, ma per quello che ha significato per milioni di famiglie»), poi però si è lasciato andare all'inevitabile: «Siamo aperti a qualsiasi discussione per migliorarlo». Ad esempio sulle politiche attive, uno dei nei della misura grillina: «Non ho tabù ideologici da questo punto di vista», ha assicurato il presidente della Camera. Ad accodarsi sulla necessità di superare il vecchio reddito grillino per convergere sul "modello Draghi" sono arrivati due pezzi forti del Pd. «Ha fatto bene il premier a difendere il principio alla base del reddito», ha spiegato la vice di Letta, Irene Tinagli. Detto ciò, «condividere il principio non significa rinunciare a migliorare uno strumento», ad esempio «rivedendo i criteri di accesso alla misura». Sulla stessa scia Stefano Bonaccini: «Penso come Draghi che uno strumento universale di contrasto alla povertà sia indispensabile», ha affermato il presidente emiliano, convinto allo stesso tempo della necessità di fare qualche correzione. Una proposta è già sul tavolo: «Intervenire sul rapporto col reddito da lavoro può eliminare effetti contraddittori o addirittura controproducenti».