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Palpeggiare al pride non è ritenuto reato: il caso dei giornalisti molestati a Milano

di Francesco Specchia martedì 2 luglio 2024

4' di lettura

I più dotti, intrisi di Beat generation, hanno evocato «nessun cazzo è duro come la vita!», il verso epico del poeta John Giorno sodale di Allen Ginsberg,, oggi citato nel libro Non farti fottere di Lilli Gruber che a sua volta aveva citato Roberto D’Agostino. I più risentiti hanno richiesto una denuncia politica, recisa, inequivocabile da parte della sinistra. I più colpiti – nel loro intimo e, soprattutto, nelle loro parti intimela denuncia, invece, l’hanno fatta direttamente al commissariato.

Comunque la si guardi, la faccenda della molestia a quattro giornalisti nell’esercizio del loro dovere, dagli anfratti del Gay Pride, è stata una grande occasione perduta per i sostenitori dell’inclusività. Un’inclusività, tra l’altro, talmente inclusiva da generare un episodio di molestia sessuale di cui lo stesso Pride dovrebbe esser l’antidoto. Questo, in teoria. La vicenda è nota. Nel racconto choc della giornalista di Fanpage Chiara Daffini la quale documentava il Gay Pride milanese nei pressi del carro del Partito Democratico si è consumato una sorta di incubo. La collega Daffini scrive di un molestatore infilatosi trai carri, nel colorato brulicare degli astanti, nel cuore della sfilata: «Si è posizionato proprio dietro di me. Sudavo ed ero stipata come una sardina insieme agli altri giornalisti in quelle che in gergo definiamo tonnare». Poi, nel furore della calca, la giornalista ha iniziato a percepire «una pressione strana sul fondoschiena ma, vista la situazione, non riuscivo a capire se fosse casuale o voluta. Ero certa però che l'uomo fosse ancora alle mie spalle, perché da quando mi aveva fatta entrare nel capannello il suo membro non si era mai staccato dal mio sedere» ha raccontato. Il «membro mai staccato dal mio sedere», di solito, sarebbe elemento fattuale per scuotere la coscienza delle femministe, per farle smuovere in falange oplitica. Questo, di solito. Invece.

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«Dentro di me sapevo che era quello che temevo, ma, non potendomene accertare, ho avuto paura a rendere esplicito il mio disagio. Avevo una borsa a tracolla bianca e ho cercato di spostarla sul lato posteriore, in modo da fare da scudo trame e le parti intime dell'individuo retrostante», chiosa la Daffini. L’espressione «individuo retrostante» indica un senso d’imbarazzo assoluto, sfiora quasi la verecondia. Ma tutto questo non è bastato. La stessa situazione hanno subìto altri tre colleghi maschi: e in questo contesto i molestatori sono democratici e sessualmente fluidi. Palpate ai genitali, scorribande sessuali, violazioni dell’intimità dei cronisti: proprio nei giorni dell’allontanamento degli omosessuali ebrei israeliani che qui volevano sfilare con la loro bandiera (mentre i vessilli palestinesi restavano ammessi), il Gay Pride viene così macchiato da una nefandezza, da attacchi alla libera sessualità di ogni individuo.


Naturalmente, qui non si tratta di intaccare il messaggio di libertà della festa arcobaleno, che rimane vessillo di libertà –seppur fin troppo colorito- sin dai tempi dai prodromi del Movimento di Liberazione omosessuale di Harvey Milk nella San Francisco libertaria degli anni 70. No. Il Pride, ovvio, non ha colpe. Però quella «strana pressione sul fondoschiena» gridata pubblicamente, quell’atto che da sempre viola la dignità personale pesantemente sanzionato dall’etica comune e dal codice penale (art .609 cp), be’, lascia l’amaro in bocca. Specie in una manifestazione nata per l’accettazione sociale. Quel gesto vigliacco racchiude tutta l’indisponenza e l’impunibiltà di una cultura patriarcale –come certifica lo spirito stesso del Pride-, e non è degno di un Paese civile.


E bene hanno fatto alcuni politici come Augusta Montaruli di Fratelli d’Italia, il viceministro del Lavoro Teresa Bellucci, o i segretari del Pd milanese e lombardo, Alessandro Capelli e Silvia Roggiani, a denunciare subito e pubblicamente l’accaduto, e a esprimere solidarietà ai giornalisti. Peccato che si sia trattata di una battaglia di civiltà un po’ monca. L’episodio –gravissimo, tanto più in tempi in cui le molestie sessuali aumentano esponenzialmente- è finito sepolto sotto una coltre di buoni propositi irrealizzati. Non è successo nulla di rilevante. Non si sono prodotte le reazioni feroci, i tuoni di indignazione che ci saremmo aspettati. Non sono state segnalate le levate di scudi dagli organizzatori del Pride. Nessuna condanna da parte della stampa di sinistra, dei blog travolti dalla passione dei diritti civili, dai politici nazionali usualmente sensibili al tema, da Bonelli&Fratoinanni in giù. La cosa s’è risolta con trenta righe in cronaca e attestazioni diffusi di lieve disappunto. Non si sono proposte interrogazioni, ispezioni, pubblici anatemi verso una società al vertice della sua dissoluzione morale. Nulla di tutto ciò è accaduto. Anzi. Si è tutto concluso in un paradossale cortocircuito del silenzio.


Ora, cosa sarebbe successo se la vittima della molestia fosse stato–chessò- Alessandro Zan, indomito guardiano della dignità omosessuale, o un iscritto all’Arci, o un qualsiasi organizzatore del Pride? Cosa sarebbe accaduto se la «pacca sul culo», simbolo di maschilismo ancora imperante, ancorché offesa reiterata si fosse consumata in un contesto diverso dai cori inneggianti alla libertà sessuale della manifestazione? In un altro scenario (dove, fortunatamente solo in parte, non si mimano atti al limite dell’oscenità tra paillettes e carnevalate, dove non inneggia ad Hamas contro Israele, dove non s’insulta la destra fascista a prescindere), la vicenda avrebbe sollevato le masse? O l’intera vergogna si sarebbe inabissata nelle alzate di mani al cielo e nelle risatine di circostanza dei presenti? Ci aspettiamo che, in un momento storico in cui si fanno le pulci e le (giuste) analisi del sangue alla destra, qua si arrivi perlomeno ad un audit a sinistra, alla denuncia corale dei presidenti di associazioni, alla partecipazione dei segretari di partito. Dopotutto, un sedere molestato, indipendentemente dal colore politico, dovrebbe essere anch’esso espressione di democrazia. O no?....

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