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Dagli scherzi alla guerra: quando il calcio diventa il pretesto per uccidersi

Giulio Bucchi

Se avesse avuto successo in porta, non sarebbe mai diventato un gran reporter. Il giornalista e scrittore polacco Ryszard Kapuscinski da bambino era un talento tra i pali e sognava di diventare un giorno portiere della nazionale polacca (oggi in campo contro la Colombia, reduci dalle sconfitte rispettivamente con Senegal e Giappone, e quindi già all' ultima spiaggia). Ma, dopo aver inviato alcune poesie alla redazione di un giornale, scoprì la sua passione per la penna e iniziò la sua carriera di cronista-narratore. Una passione sommata a quella per il nomadismo, un desiderio di viaggiare che lo avrebbe portato a raccontare, da vagabondo della notizia, gli eventi nelle aree più calde del mondo. Una spedizione lo condusse fino in Honduras nel 1969, allorché si consumò quella che lui avrebbe definito in un libro "La prima guerra del football" (Feltrinelli). L' 8 giugno di quell' anno i tifosi honduregni, alla vigilia della partita contro il Salvador valida per la qualificazione ai Mondiali del '70, disturbarono il sonno dei calciatori salvadoregni molestandoli con schiamazzi, rumore di lamiere e lanci di pietre. All' indomani, un Salvador insonnolito perse 1-0. Al ritorno, racconta Kapuscinski, si consumò la vendetta dei tifosi salvadoregni: si radunarono davanti all' albergo dei calciatori dell' Honduras, fracassarono i vetri delle camere, e vi lanciarono dentro topi morti, uova marce e stracci puzzolenti. Il giorno dopo, in uno stadio blindato, il Salvador vinse 3-0. «Fortuna che abbiamo perso», commentarono terrorizzati i giocatori dell' Honduras. Fu l' inizio della cosiddetta guerra del calcio, conflitto originato da quello scontro sportivo, ma animato da ben più profonde ragioni di natura economica, sociale e politica. I salvadoregni, troppi in uno Stato troppo piccolo, si erano da tempo appropriati di molte terre in Honduras. Presto i contadini honduregni si ribellarono a quella colonizzazione e rivendicarono il possesso dei propri campi. Si trattò di una rivolta insieme sociale e nazionale, una lotta di classe e di identità patria contro lo straniero. Il conflitto, poi ribattezzato "guerra delle cent' ore", sarebbe durato poco più di quattro giorni ma avrebbe mietuto 6.000 morti e decine di migliaia di feriti. Il cronista Kapuscinski, pure abituato a operare nei teatri più pericolosi del pianeta, inviando i suoi dispacci alla redazione di Varsavia, avvertì nostalgia di casa e del modo polacco, e meno rischioso, di fare football. E chissà, forse si pentì di non avere inseguito il suo sogno bambino di fare il portiere. di Gianluca Veneziani