«La Cina è qui, signor Burton». La citazione è del film cult del 1986 Grosso guaio a Chinatown, le cui vicende si snodano nel quartiere cinese di San Francisco, tra miti e leggende della millenaria storia cinese, dove anche il protagonista, il rozzo camionista, Jack Burton, interpretato da Kurt Russel, risulta quasi una comparsa del tutto ignara e impreparata a calarsi in un mondo troppo complesso e disparato come quello cinese.
Se il film non racconta direttamente dell’ascesa della Cina, ci lascia intravedere un aspetto: l’importanza della plurimillenaria storia cinese, la sua apertura al mondo e la sua umiltà nell’adottare elementi della modernità occidentale. Viceversa, il muro di incomprensione materializzatosi nei paesi occidentali, con lo stesso uomo post-moderno, che da protagonista si è trovato improvvisamente comparsa.
Come una sorta di Angelus novus di Klee, che accompagna la metamorfosi della sempre più polarizzata società americana e la crisi dell’egemonia a stelle e strisce, certificata da quel 70% di americani che ha smesso di credere nel sogno americano. Quel sogno che tanto attirò menti intraprendenti cinesi in una sorta di corsa all’oro 2.0, quella delle tecnologie e delle start up della Silicon Valley, al cui miracolo hanno contribuito l’eccellenza delle università unitamente a una società multietnica. Non è un caso che prologo ed epicentro delle tante contraddizioni americane risiedano a San Francisco, dal dinamismo imprenditoriale all’attenzione per la scienza e la tecnologia a cui fanno da contraltare le profonde disuguaglianze di una società incentrata sul "dogma mercato", figlia della globalizzazione e di un colonialismo cosiddetto di ri torno.
IL VIAGGIO DI HUNING
È il quadro che tratteggia nei suoi appunti il professore di Shanghai, Wang Huning, durante il suo viaggio di sei mesi negli Stati Uniti tra l’agosto del 1988 e il gennaio 1989.
Siamo alla vigilia del crollo del muro di Berlino, che segnerà il big bang della storia contemporanea. Il mondo si appresta ad entrare nella fase unipolare, segnata dalla leadership statunitense, dopo la disfatta e disgregazione dell’Unione sovietica.
Proprio al culmine dell’egemonia americana, Wang Huning compendia il suo viaggio in un libro America contro America, pubblicato nel 1991, in cui paventa con largo anticipo una cascata di fenomeni, dalla crisi finanziaria alla crisi della democrazia, fino alla crescita delle disuguaglianze e delle tensioni sociali.
Un libro e un nome, quello di Wang Huning, in occidente non molto conosciuti, che Alessandro Aresu, esperto di geopolitica e consigliere di Limes, ha il merito di farci riscoprire con dovizia di aneddoti, nel suo libro dal titolo inequivocabile, La Cina ha vinto (pp. 142, euro 16), recentemente pubblicato per i tipi di Feltrinelli. Un saggio che si legge come un giallo di geopolitica, in cui il detective è il professore di Shanghai, che si chiede a inizio narrazione: «Come sarebbe imbattersi nel cadavere dell’America?». In realtà, come fa notare Aresu, Wang Huning è ammirato dagli Stati Uniti, ma al contempo ossessionato nel ricercarne i punti di forza, il già citato dinamismo, e debolezza, come la spaccatura interna.
Se per anni il suo libro è stato definito anacronistico, considerate le tante previsioni di collasso cinese, tra le quali spicca quella di Gordon Chang, che nel 2011 pubblica il suo The Coming Collapse of China, «l’assalto a Capitol Hill, il 6 gennaio 2021, ha fatto entrare America contro America nella leggenda», scrive Aresu. Perché l’avversario dell’America non è la Cina, ma l’America stessa con le sue contraddizioni interne, inevitabilmente pronte ad esplodere, una sorta di “gene impazzito” all’interno dell’armonia naturale, ben rappresentata dal concetto di «burocrazia celeste» come unica alternativa al caos politico delle democrazie occidentali. In quest’ottica il titolo di Aresu si colloca nel filone America contro America, rispondendo alla domanda che si era posto il diplomatico di Singapore, Mahbubani “Has China Won?”, con un’affermazione di Michael Froman, già rappresentante commerciale degli Stati Uniti, che a inizio 2025 arriva a sostenere come «gli Stati Uniti sono diventati più simili alla Cina e non viceversa».
IL CAPITALE UMANO
Concludendo come «nella guerra su chi deve definire le regole, almeno per ora, la Cina ha vinto». Non un trionfo bellico, scongiurata la trappola di Tucidide, la Cina è una potenza benevola, «bensì la capacità di integrarsi in un mondo plasmato dagli altri». Aresu nel corso della sua trattazione evidenzia i due elementi su cui la Cina ha vinto: la capacità industriale e manifatturiera, e il capitale umano, di studenti e ricercatori Stem (acronimo inglese per Science, Technology, Engineering, Mathematics), il cui talento «è già il fattore determinante del mondo» e uno dei fattori determinanti della «guerra per i talenti cinesi» tra Washington e Pechino, i cui rapporti di coesistenza sono decifrati da Aresu, attraverso Wang Huning.
Che è una sorta di erede di Matteo Ricci al contrario che, entrando nella cultura occidentale come letture e traduzioni, queste ultime fondamentali in ambito geopolitico, ci aiuta a comprendere meglio gli Stati Uniti e l’occidente...con gli occhi del dragone, il cui collasso arriva sempre domani.
