Norbert Elias il grande sociologo tedesco scomparso nel 1990 a novantatré anni, aveva visto scorrere dinanzi a sé il mai terminato secolo novecentesco. Nato in Polonia e vissuto nella Germania sconvolta dal nazismo e dalla divisione post -bellica, assistette alla caduta del comunismo negli ultimi attimi della sua lunga vita.
Una vita in cui la violenza era sparsa in tutta la sua ferocia. Ma, ciò nonostante, scrisse uno dei libri forse più affascinanti per comprendere come la società altro non fosse che un costrutto fondato sulla lenta, ma secolarmente inesorabile marcia verso le “buone maniere”. Era il “processo di civilizzazione”: quella lenta, costante pressione che la società, per poter funzionare, esercitava, sino a pochi decenni or sono, per far prevalere l’ordine della discussione e della coesistenza di punti di vista e di interessi diversi - con non poche crisi e momenti temporanei di ritorno all’indietro. Questo per consentire il dispiegarsi delle relazioni sociali in forme previste e condivise dalla maggioranza dei componenti delle società, secondo un “sentito interiore” diffuso che faceva prevalere l’ordine rispetto al disordine, alla violenza e al cattivo gusto. Si, anche il buon gusto, secondo criteri diversi, certamente, ma rispettosi l’uno dell’altro, era importante, perché la bellezza delle buone maniere è un elemento di stabilizzazione della società.
Le “buone maniere” sono norme non scritte, ma cogenti che consentono l’affermarsi e il confrontarsi delle opinioni e dei costumi, pur nella loro diversità. Una sorta di “costituzione” non scritta, insomma, che abbassava i gradi di disordine e permetteva la convivenza.
Oggi è esattamente tale processo di “civilizzazione” che pare essersi interrotto da qualche decennio. Una discussione tra idee diverse è divenuta impossibile senza suscitare reazioni ben lontane dalle “buone maniere”: la violenza, non solo verbale, è sempre più diffusa e i contrasti sono amplificati e mai sopiti.
Pensarla diversamente significa provocare la rottura di relazioni sociali e amicali che dovrebbero, invece, non solo essere stabili e non soffrire della diversità, ma arricchirsi nel e del confronto. Invece, antiche amicizie si sgretolano, persone che si erano frequentate come fratelli divengono come un moderno Caino contro un ancor più moderno Abele. E a questo si è via via accompagnato il “risentimento” sociale, invece che la protesta pacifica. Il “non riconoscimento” nella diversità, invece che l’omologazione, supera ogni limite e sfocia nell’odio sociale, cosa ben diversa dalla lotta sociale.
È ormai un fenomeno di massa che si è diffuso come una malattia virale in un Occidente che, più che “secolarizzato”, è sprofondato nel nichilismo della morte della trascendenza. Non solo Dio è morto, ma è stato sostituito dagli idoli mondani di ideologie generalmente scientiste e transumaniste e quindi non può che perseguirsi l’omologazione di massa per non cadere nell’angoscia distruttiva della solitudine, se si mantiene la fede nelle “buone maniere”.
Non a caso le manifestazioni di massa su temi tipicamente antagonistici, come quelli provocati dal fondamentalismo islamico terroristico, assumono un carattere sempre più violento e rendono impossibile ogni discussione.
L’assenza della conoscenza della storia è un fattore costitutivo del processo di de-civilizzazione che si diffonde sempre più. La sottrazione della pace e dell’ordine sociale, rischia di divenire così un costume diffuso molecolarmente. Le “buone maniere” non solo sono scomparse, ma divengono veri e propri stili di vita di gruppi e di comunità l’un contro l’altra armate. Stili di vita sempre più fondati sull’individualismo e sul disprezzo di beni sociali come la sicurezza personale e i rapporti armonici tra generazioni. Illudersi di frenare il processo di decivilizzazione senza una buona educazione diffusa, è forse l’errore politico culturale più pericoloso. Civilizziamoci, insomma, riprendiamo il costume delle buone maniere...