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Repubblica, adesso dibatte sulla "terza via" e si accorge che l'ideologia woke fa solo danni

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Corrado Ocone
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Da qualche giorno Repubblica, nella pagina culturale, ha iniziato una serie estiva di interviste a intellettuali e protagonisti di area. Il titolo della serie, abbastanza neutro, è “Diritto di parola”. L’obiettivo esplicito, che viene definito in un box a corredo delle interviste, è di delineare una “terza via” fra le «istanze della cultura woke» e «l’atteggiamento reazionario che fa della lotta al politicamente corretto uno strumento politico».

La pretestuosità di questo tentativo emerge già dalla scelta dei termini con cui la serie è presentata: da una parte ci sarebbero «istanze», dall’altra malafede «reazionaria» e strumentalizzazione politica. In sostanza, si tratta di «aprire il dibattito» per cercare la strada che conduce a un wokismo moderato, non estremista come, secondo Repubblica, sarebbe l’antiwokismo fatto proprio per convenienza dalle “destre”. Ove è chiaro che l’idea di promuovere un wokismo soft ricorda un po’ come quel tale che, costretto ad ammettere di aver messo incinta la sua compagna, si giustificava dicendo che sì lo era, ma solo un po’.

 

 

 

Il primo ad essere intervistato dal quotidiano diretto da Maurizio Molinari è stato un noto filosofo americano, Michael Walzer, il quale è effettivamente rimasto fedele negli anni alla linea libertaria della New Left, che ha legato alla tradizione del socialismo liberale classico. Da Walzer, con un evidente salto logico e prospettico, si è poi passati ad intervistare Linda Laura Sabbadini, la “vicedirettora” (come ama definirsi) dell’Istat, una tecnica che appartiene a quello strano “cerchio magico” con cui Repubblica fa emergere ogni tanto e “accredita” nuovi protagonisti dell’intellettualità progressista. Pur non conoscendo i nomi dei prossimi intervistati, la ratio dell’operazione sembra ben chiara: chiamare a raccolta un po’ tutti per iniziare una lenta riconversione dal wokismo, che è radicale per natura, a qualcosa che abbia le sembianze (ma solo le sembianze) di non essere tale. In grado perciò di smussare, non certo risolvere, le evidenti contraddizioni e i cortocircuiti mentali e morali in cui la dottrina si è impigliata. Altro che dibattito!

Un altro esempio di questa nuova “politica” di Repubblica può essere considerata anche l’intervista pubblicata ieri a tutta pagina nello sport. Dopo aver dato per giorni lezioni di «inclusività», per «avere un’idea più chiara» sul caso Khelif, il quotidiano ha intervistato l’ex campione e dirigente della boxe Franco Falcinelli. Il quale senza troppe perifrasi ha sottolineato che «Angela Carini non doveva salire su quel ring» perché «le condizioni di quell’incontro erano inique» per evidente «mascolinità» dell’avversario.

LA SINDROME DEL GIORNO DOPO

Il fatto da sottolineare è però che questa operazione non è affatto una novità, come a qualcuno potrebbe apparire. Si tratta anzi di una costante che accompagna da sempre la storia della sinistra italiana. La potremmo definire la “sindrome del giorno dopo” e consiste nel tentativo, spesso ridicolo e poco credibile, di ritornare sui propri passi quando la realtà presenta il conto alla ideologia. In quel preciso momento ci si aspetterebbe una seria autocritica, una presa di distanza dai propri errori, una sincera maturazione ed evoluzione su altre posizioni. Niente di tutto questo. Senza nemmeno provare a prendere in carico il proprio passato, la sinistra reagisce immaginandosi fantomatiche e inesistenti “terze vie”.

 

 

 

EUROCOMUNISMO

L’esempio più eclatante lo dette il Partito Comunista di Berlinguer, il quale, come è noto, non ebbe mai il coraggio di criticare fino in fondo il socialismo reale, imboccando la strada riformistica che il laburismo e le socialdemocrazie europee avevano intrapreso. Provò anzi a teorizzare un inesistente eurocomunismo che doveva porsi appunto come “terza via” fra capitalismo e comunismo, fra mercato e statalismo. Il che è logicamente impossibile. Come finì è storia: il comunismo implose e la sinistra si trovò impreparata, restando in mezzo a un guado da cui ancora non è uscita. Poi, poco alla volta, la “guerra culturale” ha sostituito quella “economica”. La sinistra ha creduto allora di trovare nella sottoculura del politicamente corretto un sostituto della vecchia ideologia, un nuovo grimaldello con cui scardinare il vecchio mondo e capovolgerlo. Sostenibilità, inclusività, diritti, sono divenuti i nuovi dogmi e le nuove parole d’ordine a cui si è chiesto di adeguarsi acriticamente.

Questo surrogato, non reggendosi in piedi, ha anch’esso dovuto fare presto i conti con la “durezza dei fatti”. Le posizioni della destra, bollate come reazionarie, dimostratesi invece cariche di buon senso, sono state premiate dall’elettorato. È storia dei nostri giorni. Che fa allora la sinistra? Autocritica? Per carità! La strategia è sempre la stessa: occultare il proprio estremismo ideologico e chiamare a raccolta gli intellettuali di area alla ricerca della chimera. Lungi dall’ammettere che la destra aveva ragione, la si attacca riversandole l’accusa che non si è in grado di rivolgere a se stessi: di essere ideologici. Di esserlo così tanto da augurarsi, come ha fatto ieri la Sabbadini al termine della sua intervista, una riscrittura dei libri di testo per le primarie per superare gli “stereotipi di genere” di cui sarebbero pieni. Il che sarebbe indottrinamento puro, non certo moderazione.

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