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Non è l’apocalisse: la lezione di Confindustria per sopravvivere ai dazi Usa

Burocrazia e barriere commerciali interne: il vero problema è tutto europeo, bisogna fare presto
di Sandro Iacometti sabato 23 agosto 2025

3' di lettura

Certo, se a dirci che sui dazi Usa in fondo ci possiamo accontentare Ursula von der Leyen e Giorgia Meloni è un po’ come chiedere all’oste se il vino è buono. La prima è quella che ha firmato l’accordo, la seconda è quella che ogni giorno viene accusata di aver fregato l’Italia per compiacere al suo amico Donald Trump.

Ma se a invitare alla calma sono quelle imprese che con le nuove tariffe doganali dovranno fare i conti, forse, vale la pena dargli retta. Intanto, ha spiegato Emanuele Orsini, «con la formalizzazione dell’accordo Usa-Ue siamo finalmente a un punto fermo. Si ha la certezza che siamo al 15% anche su settori come il farmaco e l’automotive». Ora, va detto che il presidente di Confindustria, pur essendo preoccupato per il nuovo scenario, è stato uno dei pochi a mettere sempre in guardia dai rischi ben peggiori di una guerra commerciale con gli Stati Uniti. Per carità, anche Viale dell’Astronomia, come gran parte delle associazioni che rappresentano le categorie produttive, si è lanciata senza troppi problemi nel circo delle stime un tanto al chilo, inseguendo gli annunci di Trump con accurate liste della spesa. salvo scoprire, poi, che ogni ufficio studi aveva la sua, ovviamente diversa dalle altre.

Le ultime riflessioni di Orsini, però, sono ispirate al pragmatismo e al buon senso. Merce rara, soprattutto sul tema dazi. Elemento estremamente importante per giudicare l’intesa, secondo il numero uno di Confindustria, è che il 15% assorbe il 4,8% dei dazi attuali. Quindi «l’incremento non è del 15% ma del 10,2%, un livello che pone la Ue al di sotto dell’aumento medio dei Dazi americani nel mondo che è intorno al 12-13%». Il che significa che bisogna sgombrare il campo dalle balle sul peggior accordo incassato dal miglior alleato degli Usa.

Assodato che l’apocalisse non sta arrivando, Orsini ha poi cercato di elencare le possibili contromisure. Che non sono, come alcune categorie sembrano invocare in queste ore, basate sui sussidi di Stato per compensare le potenziali perdite di fatturato. Ma ruotano intorno ad una visione un po’ più realistica dello scenario economico dell’Unione europea. Tra i problemi principali da risolvere, il capo di Viale dell’Astronomia indica il non trascurabile cambio euro-dollaro. Oggi, ha detto, «c’è un incremento dell’11,5% ma potrebbe arrivare al 20 o 24%. Dobbiamo lavorare su questo aspetto, che va monitorato». Orsini non lo dice, ma qui dovrebbe entrare in gioco la sonnolenta e cauta Christine Lagarde, considerato che la politica monetaria e in capo alla Bce.

Più energico, invece, l’appello a Bruxelles: «Noi come imprenditori dobbiamo proteggerci, ma è il momento che l’Europa metta in campo misure come gli eurobond per realizzare gli obiettivi che ha in mente, a partire dalle transizioni, ma anche le infrastrutture e il prosieguo del Pnrr, mettendo al centro l’industria e la competitività». La sostanza del messaggio di Confindustria, ormai condiviso pure dagli europeisti più convinti, a partire da Mario Draghi (che ieri ha dato un’altra strigliata a Bruxelles), è che la Ue deve darsi «una sveglia».

«Abbiamo bisogno», ha proseguito, «che si faccia molto presto, sia sulla burocrazia che costa alle imprese il 6,7 per cento del pil europeo, sia per eliminare i dazi interni che frenano il mercato unico. Oggi vediamo troppi capitali andare dall’Europa verso gli Stati uniti, 300 miliardi all’anno. Gli eurobond devono essere realizzati prima possibile per attrarre investimenti, realizzare infrastrutture e puntare sulle imprese. Diventa necessario come difesa dell’industria europea».

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