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Sveglia italiani, scocca l'ora di diventare ricchi

Nel libro di Pietro Senaldi e Giorgio Merli tutti i falsi miti politicamente corretti che frenano la nostra crescita. E la ricetta per diventare primi in Europa
di Pietro Senaldi martedì 14 ottobre 2025

4' di lettura

Arriva in tutte le librerie «Sveglia! Le bugie che ci impoveriscono, le verità che ci arricchiranno» (Marsilio, pp. 234, euro 18) di Pietro Senaldi, condirettore di “Libero”, e Giorgio Merli, consulente strategico di multinazionali e governi. Gli autori smantellano i miti che da anni alterano la percezione collettiva della nostra economia: dalla retorica della «seconda manifattura dell’Europa», al costo del lavoro, dall’illusione del «piccolo è bello» al racconto auto-assolutorio sulla Ue. Un percorso di disillusione necessario: capire perché ci siamo impoveriti e cosa possiamo fare prima che sia troppo tardi. Per gentile concessione pubblichiamo alcuni estratti firmati da Pietro Senaldi (nella foto sotto).

«Gli italiani oggi parlano solo d’imbecillità e non vogliono sentire cose che non capiscono» asseriva Umberto Eco. Siamo gli eredi degli antichi romani, che prima strutturarono la loro società e poi governarono il mondo, dei grandi letterati e delle signorie illuminate del Rinascimento. Per questo, tendiamo a considerarci geniali a prescindere, pur non riconoscendo la stessa superiorità a un egiziano, solo perché i suoi avi hanno costruito le piramidi, a un messicano per i templi aztechi o a un greco per Atene, Sparta e i padri della filosofia. Abbiamo creato la mitologia dello stellone italico e dell’arte di cavarcela sempre. 

La narrazione diffusa ci vuole capaci di dare il meglio e di risorgere proprio quando siamo sull’orlo dell’abisso. È una forma di prosopopea, un’iniezione di autostima che politica e media ci somministrano come fosse morfina. Eppure i dati Ocse dovrebbero indurci a riconsiderare le nostre reali capacità: solo il 53% degli italiani è in grado di comprendere appieno il significato di un testo (contro il 93% delle popolazioni nordiche e asiatiche); solo il 6% sa interpretare un fenomeno a partire da dati numerici (contro il 12% della media Ocse e il 10% di nordici e asiatici) e il 35% è analfabeta funzionale, cioè incapace di risolvere problemi (nei Paesi nordici siamo al 7%). Se davvero aspiriamo a rilanciare l’economia, è dalla qualità delle nostre competenze di base che dobbiamo ripartire.

DILEMMA GERMANIA
Il nodo è sempre la Germania. Per l’Europa e per l’Italia. Berlino è il gigante che ci condiziona, una guida severa e prepotente. Condivide con la Francia la leadership dell’Unione, ma negli anni ha finito per prevalere su Parigi ed è diventata la nazione che, per ragioni economiche, demografiche e anche storico-geografiche, ha determinato più di tutte gli indirizzi politici e le scelte strategiche dell’Europa. Questo è accaduto con tutti, ma in particolare con l’Italia, vittima della schiavitù volontaria che ci siamo inflitti con il nostro mostruoso debito pubblico e con un declino industriale e morale che a tratti pare addirittura volutamente ignorato. I tedeschi ci hanno salvato, garantendo con l’euro il nostro debito, che era diventato insostenibile, ma si sono fatti pagare cari. Ci hanno ispirato come modello di sviluppo economico, finendo però per condizionarci fino a soffocarci, limitando progressivamente i nostri margini d’azione. Ci hanno anche tratto in inganno, imponendo regole comunitarie plasmate sulle loro convenienze e che solo loro si ritenevano liberi di violare. Infine, ci hanno contrastati: politicamente, cercando di espandere al massimo la loro influenza nelle nostre istituzioni e indirizzando l’Europa in senso contrario agli interessi dei Paesi mediterranei; ed economicamente, tradendo gli accordi e praticando una concorrenza sleale. In cambio, hanno recitato la parte del protettore, elargendo mance comunitarie in parte ottenute anche a nostre spese.

Berlino detiene la leva più lunga nei rapporti con i partner Ue ed è maestra nel mascherare l’interesse nazionale come bene comune o direzione inevitabile della storia. L’Italia, che si vanta di essere la seconda manifattura europea dopo la Germania, ha costruito il proprio modello industriale già prima dell’euro ispirandosi a quello tedesco. Ciò non ci ha impedito di essere l’unico Paese ad aver registrato una diminuzione del pil reale pro capite dall’introduzione della moneta unica. Dopo la crisi finanziaria del 2008, l’Italia ha vissuto lo strappo più drammatico: mentre gli altri Stati, Germania inclusa, sono ripartiti, noi siamo rimasti al palo, pur indebitandoci ulteriormente. La domanda è inevitabile: i tedeschi sono per noi una benedizione o una maledizione?

PENSIONI E IMMIGRATI
Sempre a proposito della retorica con cui la politica ha cercato di mascherare la propria inadeguatezza nella gestione del fenomeno migratorio, va sfatato il mito secondo il quale gli immigrati salveranno il nostro welfare. Gli extracomunitari, come già detto, contribuiscono con una percentuale pari a quasi il 9% del pil (una quota di poco inferiore a quella della loro incidenza sulla popolazione); in media un immigrato genera un gettito fiscale pari a meno del 60% di quello di un cittadino italiano. Inoltre, il 45% degli immigrati dichiara redditi inferiori alla soglia minima di tassazione. Viceversa, gli accessi al pronto soccorso sono, in proporzione, quasi il doppio rispetto a quelli degli italiani. Considerata l’età media molto più bassa (trentacinque anni contro quarantasei), il peso della popolazione immigrata sulla sanità pubblica è destinato a crescere rapidamente. Anche il suo contributo nel contrastare la denatalità è spesso sopravvalutato. Basta una generazione perché il tasso di fertilità delle donne di origine extracomunitaria si allinei a quello delle italiane, che è tra i più bassi d’Europa e del mondo. Quindi, in prospettiva, non possiamo affidarci all’immigrazione per mettere in sicurezza il nostro sistema previdenziale.

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