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Bersani è cotto: la partita del Colle è ancora aperta

Può succedere di tutto: il segretario non controlla più i suoi e quello di Rodotà è un nome forte. L'alternativa? D'Alema, ma a Palazzo Chigi...
di Andrea Tempestini domenica 21 aprile 2013

3' di lettura

di Maurizio Belpietro @BelpietroTweet L’accordo c’è, ciò che manca è la certezza che Pier Luigi Bersani sia in grado di farlo digerire al suo partito e al suo principale alleato, cioè  quel Nichi Vendola che ieri già si era espresso a favore di Stefano Rodotà, il professore candidato dal Movimento Cinque Stelle. Se le decisioni che oggi prenderà il leader di Sel rimangono un punto interrogativo, non meno incerte sono quelle dei renziani, dopo che domenica il sindaco di Firenze aveva bocciato Franco Marini, liquidandolo come uno che essendo stato trombato in Abruzzo non poteva certo essere acclamato sul Colle. E invece la scelta di Pd e Pdl per il Quirinale è caduta proprio sull’anziano lupo marsicano, un sindacalista di vecchio pelo che è passato direttamente dalla guida della Cisl a quella di Palazzo Madama. Certo non un gran rappresentante  del cambiamento che era stato promesso da Bersani, dato che l’ottantenne ex senatore del Pd è sulla scena dagli anni Sessanta e dai primi anni Novanta in politica. Lui, che ereditò la corrente democristiana fondata da Carlo Donat Cattin, del leader forzanovista  si prese anche il posto di ministro del Lavoro nel settimo governo Andreotti. Insomma,  Marini è un dinosauro della politica, transitato dall’era geologica della prima Dc al Ppi, del quale  per un certo tempo fu anche il segretario, contribuendo poi a fondare sia la Margherita che il Partito democratico. A lui si è arrivati per effetto dei veti incrociati. Nel mazzo che il Pd aveva offerto al Pdl oltre al nome di Marini ce n’erano altri giudicati più quotati, tra cui quelli di Giuliano Amato e Massimo D’Alema, ma entrambi hanno incontrato resistenze. Il primo non piaceva a Sel, alla Lega e neppure a una parte del Pd e dunque, pur essendo il preferito da Berlusconi, è stato lasciato cadere per l’alto rischio che in aula venisse impallinato, aprendo la porta all’avanzata di qualche sorpresa, tipo ad esempio Prodi o Rodotà. Al Cavaliere sarebbe andato bene anche l’ex segretario del Pds, ma probabilmente la maggior parte degli elettori di centrodestra non avrebbe gradito, e poi anche in questo caso esisteva un serio pericolo che una parte del Pd si ribellasse alla scelta e decidesse di sparargli contro nel segreto dell’urna. Non che Franco Marini sia immune dai franchi tiratori, ma diciamo che a differenza di Amato e D’Alema nel suo caso le antipatie sono ridotte. Certo, l’ex sindacalista ed ex presidente del Senato non è un candidato forte. Anzi, diciamo che è proprio un candidato debole. Fuori dal circuito nazionale nessuno lo conosce e per quanto ne sappiamo non può certo essere considerato una garanzia di stabilità dai mercati finanziari. L’uomo infatti è incazzoso ma  non particolarmente coraggioso. Né, data l’esperienza, una certezza per le riforme che interessano le aziende e il mercato del lavoro. Per dirla tutta, è un vero rappresentante della Casta sindacale e politica che da anni regna sul Paese. Uno dei tanti esponenti della sinistra che scivolò sull’acquisto a prezzo stracciato di una casa degli enti previdenziali.  Ma alla fine sarà proprio Marini a diventare il dodicesimo presidente della Repubblica? Onestamente nessuno lo può dire. La giornata odierna si annuncia infatti gravida di incertezze e alla debolezza del candidato si aggiunge quella del segretario del partito che lo deve proporre e votare. Mai come in questo momento Bersani è apparso indeciso a tutto, insicuro se fare un passo avanti o uno indietro, se tenere fede a un accordo o stracciarlo per inseguire le sirene grilline. Proprio per tale motivo, per la nebbia che sale fitta all’irto Colle, ci sentiamo di riferire una voce raccolta nella serata di ieri e cioè che se Pier Luigi non ce la dovesse fare a imporre la decisione, la parola passerebbe a Massimo D’Alema. Non per la presidenza della Repubblica, ma per quella del Consiglio. Il segretario verrebbe definitivamente congelato, ma solo dopo una specie di commissariamento del partito. Il Pd serrerebbe i ranghi votando comunque Marini, ma poi toccherebbe a Spezzaferro guidare il governo di unità nazionale con dentro i ministri della maggioranza che avrebbe portato un sindacalista al Quirinale. Fantasie? Probabilmente sì. Ma se un partito che alla Camera ha il 55 per cento dei seggi si trasforma in una maionese impazzita, tutto può succedere. Anche che ci si ritrovi Marini sul Colle e D’Alema sul collo. Poveri noi. Finiremo marinati.

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