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Vladimir Putin? Se un paese è in crisi fa la guerra: alle origini dell'invasione in Ucraina

di Francesco Carella mercoledì 16 marzo 2022

3' di lettura

Vi è una costante nella storia delle grandi potenze. Al declino corrisponde una particolare propensione ad aprire conflitti ad alto rischio bellico e quasi sempre forieri di radicali riscritture dell'ordine geo-politico precedente. È ciò che accadde, per fare un esempio fra i tanti, nel 1914 alla vigilia della Prima guerra mondiale, allorquando una potenza in profonda crisi strutturale, l'Impero Austro-Ungarico, considerò l'immediato passaggio alle armi - dopo l'attentato di Sarajevo contro l'arciduca Francesco Ferdinando - anche come soluzione per superare i gravi problemi all'interno del suo vasto territorio. In tal senso, andrebbe letta la strategia seguita da Vladimir Putin negli ultimi anni fino ad arrivare alla scelta estrema d'invadere l'Ucraina. La Russia è un Paese decisamente in declino sotto molteplici profili. Oggi il Prodotto interno lordo e il reddito pro capite sono rispettivamente un settimo e un terzo di quello statunitense. Petrolio e gas rappresentano la metà delle entrate statali. La vita media del maschio russo fatica a raggiungere i sessant' anni, mentre il sistema sanitario pubblico è lontano mille miglia dagli standard occidentali.

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Il tutto avviene in una cornice istituzionale e giuridica segnata da una diffusione molecolare della corruzione. Apparentemente si può credere che ci sia stata una cesura rispetto all'epoca in cui Mosca poteva contare su un orizzonte territoriale che abbracciava parte dell'Europa fin dentro la Germania e affermava di avere un evoluto sistema sociale di gran lunga superiore rispetto a quello dell'Occidente. Ma così non è. Infatti, fra la Russia di Putin e l'URSS vi è un anello di congiunzione che rende ragione della crisi attuale e dell'improvviso crollo dell'Unione Sovietica nel dicembre 1991. La ventilata grandezza di marca comunista era una costruzione dai piedi di argilla come riconobbe l'ultimo segretario del Pcus, Michail Gorbaciov, quando definì quel sistema politico- a dispetto della propaganda sostenuta anche dai comunisti italiani - «in ritardo su tutti gli indici economici e civili internazionali» e individuò la causa prima nella grigia burocrazia di partito e nel «grande disordine di sistema».

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Disordine istituzionale mai corretto negli anni successivi (la nomenklatura di stretta osservanza venne sostituita dallo strapotere degli oligarchi) da cui deriva l'ulteriore declino politico-economico del Paese che Putin cerca di superare attraverso una riaffermazione di potenza difficile da raggiungere con la sola forza delle armi. Come sostiene il politologo americano Joseph S. Nye, in un recente articolo pubblicato sul settimanale britannico The Spectator, «hard e soft power operano su scale temporali diverse. L'hard power è tangibile e immediato, mentre il soft power, pur essendo determinante, necessità di maggiore tempo per dispiegare la sua forza. Quando il muro di Berlino crollò nel 1989 non era sotto il fuoco dell'artiglieria. Ad abbatterlo furono i martelli branditi da persone che volevano il cambiamento. Nell'invasione dell'Iraq nel 2003, l'esercito americano non ha impiegato molto a sconfiggere Saddam Hussein, ma il famoso vessillo di "missione compiuta" di George W. Bush ignorava il deficit americano di soft power che ha tenuto gli Stati Uniti impantanati in Iraq per un lungo periodo». Anche Vladimir Putin potrebbe scoprire presto che governare un popolo, per di più fortemente legato alla propria identità, è assai più difficile che sconfiggerne l'esercito sul campo.

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