Per presidiare il luogo comune scende in campo il luogocomunista per eccellenza, al secolo Veltroni Walter. Se vince Trump, vince Putin. È il teorema sghembo e acefalo ripetuto in questi giorni dal mainstream, addirittura urlato dopo che il tycoon ha sbaragliato tutti nelle primarie repubblicane dello Iowa. E ieri Veltroni ci ha messo tutta la sua autorevolezza di rimestatore di ovvietà, dispensando certezze in una conversazione amicale con Repubblica: «Se vince Trump, la guerra in Ucraina finisce sì, ma con la vittoria dell’invasione di Putin». Peccato che la tesi non sia ovvia affatto, anzi cozzi contro l’unica unità di misura che abbiamo: i quattro anni di mandato Trump alla Casa Bianca. Gli unici in cui Putin non abbia aggredito un Paese vicino, acceso un focolaio di crisi militare e geopolitica, ostentato la ritrovata vocazione imperiale della Russia.
Durante gli anni in cui il suo “alleato” o addirittura “burattino” (negli esiti più schiettamente fantasy della pubblicistica progressista) era installato dentro lo Studio Ovale, lo Zar non ha messo a segno una conquista, ottenuto una concessione territoriale, nemmeno alzato un po’ la voce. Diciamo che è rimasto scientemente rintanato nel grembo della Grande Madre Russia, congelando la postura di sfida all’Occidente. Se stiamo ancora con Cicerone, se pensiamo ancora che la storia (e non la paranoia ideologica dei giornaloni) sia maestra di vita, ci tocca concludere che qualunque anti-putiniano coerente dovrebbe essere un tifoso accanito di un seconda presidenza Trump. Perché, al netto dell’ostentata confidenza personale con l’altro (che serve anche a demistificarlo, a ridurre l’aurea demoniaca da condottiero ex-Kgb a quello che è, un autocrate regionale che si può prendere una mortificante pacca sulla spalla), The Donald ha sempre applicato nei fatti una massima di Theodore Roosevelt, grande presidente d’inizio Novecento. «Parla gentilmente, ma sempre imbracciando un nodoso bastone». Il suo modello è sempre stato il negoziato, Trump non è un neo-con che sovraespone l’America e non è nemmeno Reagan che incendia la contrapposizione valoriale tra «la città sulla collina» e «l’Impero del Male». È, però, uno che porta sempre con sé il “nodoso bastone”, che imposta la trattativa sui rapporti di forza, col realismo crudo del businessman. E, da buon realista, sa che ogni tanto la forzava usata, che la deterrenza va esercitata, perché non si accartocci in vacua retorica, come è capitato al suo successore.