Che i due, il presidente statunitense Donald Trump e il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman, si «piacciano veramente tanto» è lì da vedere. Un rapporto, ha detto il leader americano, «straordinario» che vale 600 miliardi di dollari di investimenti sauditi negli Usa («ma i due Paesi collaboreranno per aumentare gli investimenti fino a un trilione», ha detto bin Salman). Cui va aggiunta una fornitura di equipaggiamenti e servizi bellici statunitensi per un valore di 142 miliardi, «la commessa militare più grande della storia», si legge nella nota della Casa Bianca. Campioni di liquidità e anche di accoglienza, i sauditi hanno allestito per Trump – che ha scelto Riad come prima tappa del suo primo viaggio internazionale – un McDonald’s mobile pienamente operativo nei dintorni della Corte Reale, così da accompagnare il leader americano – noto consumatore di Big Mac, Filet-o-Fish, patatine fritte e milk shake al cioccolato – durante la sua visita di Stato.
Dieci anni fa, la rivista statunitense Foreign Affairs titolava “The Post-American Middle East”, il Medio Oriente post-americano, e rifletteva sull’evoluzione degli assetti regionali e del ruolo degli Stai Uniti avvenuti sotto la presidente di Barack Obama: dalla riduzione della presenza diretta americana nella regione all’adozione di un ruolo di offshore balancer, equilibratore a distanza, da parte di Washington. Ma nessuno si sarebbe immaginato che dal trittico di interessi oil, containment and Israel (petrolio, contenimento e Israele) si sarebbe passati al ruolo che oggi, oltre agli affari, la Casa Bianca affida alle monarchie del Golfo, “cerniera” che collega America, Cina ed Europa, motore dell’economia globale.
«Le meraviglie di Riad e Abu Dhabi», ha detto Trump in un alluvionale discorso al Forum degli investimenti Arabia-Usa davanti a una platea stellare (Elon Musk e gli amministratori delegati di IBM, Amazon, BlackRock, Citigroup, Palantir, Nvidia e Alphabet), «non sono state create dai neoconservatori o da organizzazioni no-profit progressiste come quelle che hanno speso miliardi per non riuscire a sviluppare Kabul e Baghdad. I cosiddetti “costruttori di nazioni” hanno distrutto molte più nazioni di quante ne abbiano costruite, e gli interventisti stavano intervenendo in società complesse che non comprendevano». Una definitiva ammissione del fallimento della Pax Americana che aveva contraddistinto la regione a partire dalla Seconda guerra mondiale. «Una nuova generazione sta forgiando un futuro in cui il Medio Oriente è definito dal commercio, non dal caos; che esporta tecnologia, non terrorismo; e dove persone di nazioni, religioni e credi diversi costruiscono città insieme, non si bombardano a vicenda».
E se è certamente vero che gli stati del Golfo stanno emergendo come un ambiente politico contrario alla guerra per la stabilità economica della regione, lo stesso fa Trump, che finora si è attenuto alla diplomazia, anche per non farsi dare la colpa di una nuova guerra. In questo senso vanno le dichiarazioni di ieri: l’offerta all’Iran di un percorso per un futuro di speranza (a patto che Teheran «faccia una scelta adesso»), lo stop alle sanzioni alla Siria (l’accordo con il presidente siriano ad interim Ahmad al-Sharaa verrà siglato oggi, dopo 13 anni di guerra civile), il cessate il fuoco con gli Houthi, il sogno di vedere l’Arabia Saudita aderire agli Accordi di Abramo, gli sforzi per la pace a Gaza (secondo Haaretz, il presidente punta a presentare in Qatar il piano per mettere fine al conflitto, “ordinando” di rispettarlo a Benjamin Netanyahu, il quale si presume non sarà contento nemmeno della revoca delle sanzioni a Damasco). Oggi sarà la volta del vertice con i Paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo (Bahrain, Kuwait, Oman, Qatar, Arabia Saudita e Emirati Arabi). Seguiranno le tappe in Qatar e negli Emirati. Questa è “l’arte dell’accordo” con i petrodollari.