Perché non possiamo non dirci ebrei

Dalle radici europee al ruolo in Medioriente: ecco che cosa ci lega alla stella di David
di Stefano Rissettomercoledì 18 giugno 2025
Perché non possiamo non dirci ebrei
4' di lettura

Sotto il fortunale d’acciaio dei missili khomeinisti c’è anche il desolato silenzio di un vecchio strumento a corde, che non viene suonato da più di sessant’anni, esposto all’Accademia di Musica e Danza di Gerusalemme. Era stato il ferro del mestiere di uno dei massimi fabbricanti di sorrisi di questo Novecento che non se ne vuole proprio andare: Adolph Arthur Marx, Adolph perché nel 1888 un israelita newyorkese, nato nella città che fino all’11 settembre era la più grande metropoli ebraica del mondo, poteva ancora essere chiamato con quel nome. Nel geniale complesso familiare guidato da Julius Henry “Groucho”, Harpo era quello che non parlava mai, se non pizzicando i crini della tavolozza sonora. Nel testamento, lasciò la sua arpa allo Stato di Israele, allora nemmeno ventenne. Era un modo, il solo, di rendere omaggio alle sue radici, che poi sono anche quelle di noi europei, di noi occidentali? Non possiamo, soprattutto oggi, non dirci Ebrei.

La massima crociana va ampliata in senso concentrico - perché Cristo era un ebreo nel tentativo di raddrizzare la semantica storica di un continente uscito dai cardini, fin da quando si era deciso di escludere le radici giudaico-cristiane dalla Costituzione di un’Europa che senza di esse si avviava a diventare una occhiuta banca d’affari di modello sovietico, per l’incubo di un capitalismo dirigista sovrastatale qui claudicante e realizzato invece con successo in Estremo Oriente. Non possiamo non dirci Ebrei perché la storia e la cultura dell’Europa, quindi dell’Occidente, svaniscono qualora si rinneghi un legame non privo di asperità, tuttavia irrinunciabile. Di cosa parliamo, quando parliamo di Israele? Oggi più che mai, è il canarino nella miniera della civiltà, messa in pericolo dal fanatismo ostile che non ha altro orizzonte dalla distruzione, non meno che dall’indifferenza di una parte non maggioritaria ma chiassosa della cultura occidentale, che ha in odio se stessa e dopo aver perso la grande partita del Secolo Breve cerca dappertutto qualcuno che la vendichi per procura. Dovremmo avere a cuore lo Stato degli Ebrei, non solo per la natura focalizzata da Wojtyla, figlio di quella Polonia che con l’Ucraina era stato il cuore di tenebra dei peggiori pogrom, di “fratelli maggiori”, una definizione logoratasi negli anni del rave sudamericano e la cui ricucitura è una delle tante cui è chiamato Leone XIV. Dovremmo ricordare sempre che non possiamo non dirci Ebrei, perché come gli Stati Uniti sono un’Europa trapiantata senza rigetto oltre l’Atlantico, Israele è la sola macchina democratica funzionante dal Mediterraneo al Pacifico, e battiti in testa e sobbalzi non sono endogeni. Israele non ha mai cominciato una guerra, è dalla sua fondazione che si difende e non può non farlo perché è circondato da aspiranti distruttori. Se chi lo circonda posasse le armi, ci sarebbe la pace. Se Israele posasse le armi, sarebbe annientato in un istante. La geografia direbbe che è un piccolo Stato. La storia racconta che è il sale della Terra.

L’Europa e il mondo sarebbero ben poca cosa senza la scienza degli Ebrei, la letteratura degli Ebrei, la musica degli Ebrei, l’arte degli Ebrei, la filosofia degli Ebrei. E non sapremo mai quanti altri Allen o Kubrick, Celan o Grossman, Chagall o Modigliani, Rosenzweig o Levinas, Einstein o Schroedinger, Gershwin e Goodman sarebbero sorti da quei sei milioni di anime finite in fumo nella “Zona di interesse”. Dovremmo avere caro il popolo da cui proviene molto di noi e che è il più perseguitato della storia dell’umanità: una vicenda che parte dalla cattività babilonese, sette secoli prima di Cristo, e ha come presupposto della diaspora la distruzione del Tempio da parte di Tito, secondo un crescendo culminato nella “soluzione finale” che svuotò non solo le comunità ma anche i cimiteri, come dimostra l’ampio prato di Ferrara dove il solo Giorgio Bassani sorveglia il nulla e il ricordo di Micol Finzi-Contini. «Da bambino, ogni volta che entravo in una stanza, qualcuno si metteva a piangere» è il perturbante incipit de “Gli scomparsi” di Daniel Mendelsohn. Non ci sarebbero l’Europa e l’Occidente come li conosciamo, senza tutto quel che nello Stato di Israele trova indice analitico, bussola e sestante, possibilità di un’isola. Ricordiamolo in queste ore di smarrimento, quando a Gerusalemme non hanno avuto altra scelta che muoversi per primi, nel disperato tentativo di privare il regime iraniano della possibilità di armare a testate nucleari i dardi scagliati contro la nazione della Stella di Davide. E ancora una volta il mondo ha tardato, ha lasciato solo Israele, non ci voleva un genio per capire come mai uno Stato con illimitate risorse energetiche fossili dovesse proprio armeggiare con l’atomo. L’Aiea si è voltata dall’altra parte fischiettando e così è toccato all’Idf. Ancora una volta l’Europa e l’Occidente, probabilmente adulterati nel sentire dagli stessi finanziamenti che in passato hanno orientato accademie e opinione pubblica, non hanno chiaro che se cade Israele crolla tutto. E il mondo, che non è mai stato perfetto, sarebbe sicuramente peggiore. Difendere Israele significa difendere noi stessi: la filosofia eretica di Baruch Spinoza, ebreo apostata eppure architrave del pensiero moderno, la musica dissonante e remota di Kurt Weill, capace di ibridare tradizione antichissima e modernità senza tempo. E anche, forse purtroppo, la fisica che mai come oggi sembra il fuoco di Prometeo: c’è una sequenza ebraica che parte da Isaac Newton e attraverso i ragazzi di via Panisperna arriva a Edward Teller, Leó Szilárd, Eugene Wigner e Victor Weisskopf fino a Robert Oppenheimer. Eppure non possiamo non dirci Ebrei. Perché è dal Libro che arriva la nostra civiltà, certamente con le sue ombre, ma le alternative si sono sempre rivelate orribili. Così in queste ore chi ha a cuore se stesso segue i notiziari, spera che l’inferno si attenui, magari che la Persia torni a splendere. E che l’anima di Harpo Marx, insieme con i suoi fratelli, scenda su Gerusalemme a far suonare quell’arpa silenziosa, una canzone di pace. «Mio padre non ha avuto una seconda infanzia - diceva di lui il figlio Bill - perché non è mai uscito dalla prima».

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