Che la politica di Donald Trump stia ridisegnando nuovi equilibri mondiali in sostituzione di quelli vecchi, che ormai facevano acqua da tutte le parti, è ormai a tutti evidente. Con la (forse) calcolata rozzezza dei suoi modi, il quarantasettesimo presidente americano sta rimettendo in primo piano i rapporti di forza fra le potenze, convinto che gli Stati Uniti, che avevano disegnato il vecchio ordine, abbiano ancora molte carte da giocare per avere un ruolo di primo piano nel nuovo e nascente. La partita dei dazi si inserisce in questa vasta operazione, e non può pertanto essere giudicata con il solo metro dell’economia. Trump ce lo conferma ogni giorno. Ci piaccia o no per lui la differenza fra amici e alleati, da una parte, e nemici e avversari, dall’altra, è secondaria rispetto a quella fra paesi che “contano” e paesi che “non hanno le carte”. Sicuramente si può leggere tutto questo come una riscossa della politica, come una reazione tesa a subordinare la sfera degli affari alle esigenze degli Stati. E questo elemento c’è sicuramente.
Ma forse c’è qualcosa di più: un intreccio inestricabile fra politico ed economico che fa perdere ogni distinzione fra le due sfere dell’attività umana. Trump da questo punto di vista non si è inventato niente: ha solamente tratto le somme da un processo che era già in corso e che, senza il suo intervento, avrebbe preso forse una piega molto sfavorevole per il suo paese e per tutto l’Occidente (di cui una parte, a suo dire, e non senza ragione, accusa un inesorabile declino). A non distinguersi sono spesso, e sempre più, i soggetti operanti nel confronto. Vediamo così aziende private che necessitano di grossi investimenti statali per dare concretezza alle loro idee innovative o che semplicemente dipendono dalle commesse dello Stato (ad esempio nella difesa e nella sicurezza); ma anche aziende private che penetrano con i loro uomini nei gangli vitali dello Stato, i quali risultano così quasi “privatizzati” o appaltati. Gli studiosi, per indicare questa situazione, parlano di “capitalismo politico”, una espressione che ai loro occhi connota un modello che è ormai comune, in un’ottica e con intenti ben diversi, sia all’America sia alla Cina.
Tutto ciò comporta una crisi senza precedenti, e senza dubbio inquietante, di concetti liberali e moderni classici come “conflitto di interessi”, “difesa della privacy”, e via dicendo. E tutte le azioni fatte per contrastare questi risultati sembrano tentativi tanto dovuti quanto spesso vani: una specie di lavoro di Sisifo, la patetica rincorsa di una cinquecento ad una Ferrari in fuga. Sarebbe però un errore pensare che questo stato di confusione e indistinzione fra politica ed economia sia una situazione del tutto nuova. Un tempo era la normalità. È stata l’età moderna, all’incirca intorno ai secoli XVI e XVII, a rendere autonome e distinte (in quel caso dalla metafisica e dalla teologia) prima la politica (Machiavelli), poi l’economia, infine anche la morale (che ha preteso di essere una “etica senza Dio”, cioè di fondarsi senza altra base di appoggio se non la “razionalità” umana). Le categorie mentali con cui da allora abbiamo letto il mondo ci hanno portato a credere come naturale ciò che era solo storico, passibile di essere superato. Se questo superamento si sta realizzando, se veramente ci avviamo a vivere nella post-modernità, ciò non significa che stiamo semplicemente tornando indietro (anche il Progresso è dopo tutto una categoria moderna). Non capiamo il mondo perché le vecchie categorie sono insufficienti, ma possiamo ben lavorare perché la parte migliore del vecchio sopravviva nelle nuove condizioni. Le nuove sfide della libertà esigono di essere affrontate di petto e con nuovi strumenti. E vista in quest’ottica, anche la figura di Trump, potrebbe apparire meno inquietante di quanto ci vogliano far credere i “progressisti”. Forse addirittura positiva.