Ho deciso di fare un esperimento: prendere per buono tutto quello che ho letto sul fallimento del vertice tra Trump e Putin in Alaska e andare alle conseguenze che non ho letto né sentito da nessuna parte. Vado dritto al punto, se siamo al classico momento di ogni crisi americana - «Houston, abbiamo un problema» - allora qualche penna illuminata sulle gazzette (e nei cenacoli della gente che piace) dovrebbe spiegarci che cosa succede dopo, cioè adesso e, di grazia, offrire un quadro realistico e qualche soluzione. Silenzio. La ragione di questo mutismo è semplice: le conseguenze sono indicibili, non si possono raccontare all’opinione pubblica nella loro scartavetrata verità, perché la storia ama prendere molte strade, ma di solito ci vede benissimo e imbocca quella peggiore che nel caso dell’Ucraina è un incubo. «Se non si può fare», come dicono quelli che la sanno lunga, allora già domani, quando Volodymyr Zelensky sarà a Washington a colloquio con Trump, potremmo vedere l’esito. Giochiamo alle domande (im)possibili.
Cosa accade se l’Ucraina e l’Europa non trovano un punto di caduta nella realtà della guerra? Una vecchia lezione delle “spy stories” ricorda che per non essere uccellati in contropiede dai fatti, bisogna sempre lavorare sullo scenario peggiore, quello che sembra fiction (la Cia li chiama non a caso «fictional scenarios»), in fondo ne abbiamo avuto un preludio settimane fa nella rumba dello Studio Ovale: dunque ecco Zelensky che fa saltare il tavolo, Trump che lo mette alla porta, poi alza il telefono e ordina al Segretario della Difesa, Pete Hegseth, di sospendere le forniture di armi. Sbuffando come un toro, Donald chiama lo speaker della Camera, Mike Johnson, e gli intima che il Congresso deve invertire la rotta sugli aiuti; senza pace, senza premio Nobel, Donald agita una mazza da golf mentre ronza sulla West Wing, spara un paio di tweet che affondano Wall Street e le Borse di tutto il mondo, non prima di aver ricordato a JD Vance di anticipare la notizia del cambio di spartito americano in Ucraina. Parte la ola del popolo Maga e s’alza la sola per l’Europa che resta intrappolata in una guerra che non può vincere contro una superpotenza che non può perdere. C’è una versione alternativa della storia? Certo, eccola: Trump, Zelensky e i leader europei fanno una prova per testare le parole di Putin, tengono il punto e continuano a sostenere l’Ucraina mentre combatte (perché Mosca non vuole una tregua, ma un accordo globale), squadernano la mappa dei territori e mobilitano sherpa, cartografi e economisti per preparare i colloqui della Conferenza di pace; nel frattempo presentano a Putin le opzioni per aprire un ombrello di sicurezza sull’Ucraina (un dispositivo simile all’articolo 5 della Nato sulla mutua assistenza) e alzano un muro di difesa integrata sul fianco orientale europeo con la Russia e i suoi alleati (Bielorussia e altri), presentano le bozze per un nuovo trattato sulle armi strategiche (missili e testate nucleari), riaprono qualche rotta commerciale con Mosca per far vedere che le intenzioni sono buone e «domani è un altro giorno».
Tra le due versioni, la differenza è la guerra senza fine. E l’Europa lo sa, ecco perché ieri i leader hanno sfornato un comunicato di sostegno all’iniziativa di Trump, ponderato. Se fallisce, entriamo in una terra senza mappa. Il punto dal quale non si evade - regolarmente taciuto da quelli che fanno la resistenza in salotto e cantano l’anti-trumpismo sotto la doccia - è che senza l’assistenza militare dell’America la guerra contro la Russia è un buco nero, quindi bisogna mantenere l’impegno di Washington sul fronte e, se serve a tenere dentro gli Stati Uniti (e non innescare nel Congresso l’idea del dietrofront), aumentare gli acquisti dall’armeria del Pentagono. Si tratta di una verità facile da verificare, basta leggere un report dettagliato del Centro di studi strategici di Washington pubblicato il 5 maggio scorso. Qui vediamo che la fanteria di Kiev è equipaggiata con lanciamissili Stinger e Javelin (ricordate il “San Javelin”? Fu fornito all’Ucraina dalla presidenza Trump), lanciagranate, fucili, mitragliatori, pistole, proiettili da 25 millimetri, elmetti, giubbotti antiproiettile e varia armatura balistica. E siamo solo all’inizio, sono solo le basi del mestiere delle armi. Alla voce “artiglieria” compaiono i micidiali cannoni Howitzers da 155 e 105 millimetri, mortai, e relativi proiettili di varia qualità e specifico uso (precisi e potenti per bucare i mezzi corazzati) da produrre per sostenere un gigantesco sforzo in battaglia. Sulla difesa aerea, servono sistemi complessi di Patriot e Nasam senza i quali lo spazio aereo dell’Ucraina è indifeso. Bisogna sorvegliare le coste e affondare le navi del nemico, dunque ecco la necessità di avere sistemi e missili Harpoon, motovedette e mezzi anfibi. Sul terreno ci sono migliaia di mezzi mobili di supporto, carri armati e veicoli corazzati come gli Abrams, i T-72B, i Bradley, gli Striker, gli M113 e altri mezzi. Dal cielo piovono minacce, bisogna intercettarle prima, servono radar per tracciare l’artiglieria di Mosca. E una risposta rapida sul campo con gli elicotteri Mi-17. Infine, l’arma letale della macchina da guerra ucraina, i droni dai nomi che evocano precisione, silenzio e morte che viene dal cielo: Switchblade, Phoenix Ghost, Hornet, Puma, Scan Eagle, Penguin, Raven. Sono tutti Made in America, compagni partigiani, e i numeri accanto alle sigle, sono oceanici. L’Europa non è attrezzata per sostituire questo inferno tecnologico, ci vuole tempo e una catena produttiva che non c’è. Sorvolo su quello che non si vede, l’assistenza militare, la formazione, la fondamentale copertura di intelligence che serve a prevenire gli attacchi e individuare gli obiettivi, l’apparato di cyber-difesa, la rete satellitare di Starlink senza la quale Kiev è «cieca», il trasporto e la logistica di ogni singolo mezzo, le ambulanze per i feriti, le riparazioni dell’arsenale e il ridispiegamento sul campo di battaglia. Se la diplomazia e la guerra fossero quella “cosa” raccontata dal giornalismo dei volenterosi che non sono in trincea, saremmo in smoking, inamidati e già tutti morti.
Sento cose lunari da sagome parlanti nei talk show che non hanno mai partecipato neppure a un vertice bilaterale nel proprio condominio, ma spiegano ai bifolchi (di cui noi facciamo parte, ci mancherebbe) che in Alaska Trump ha fallito senza dubbio e gratta gratta se c’è un’intesa tra Donald e Putin è un patto tra gangster. Ho un ricordo non vago della storia remota e recente e i guai con Mosca hanno un seme diverso: quando la Russia invase la Crimea (2014) alla Casa Bianca c’era Barack Obama e non fece un plissé; sempre lui, «yes we can», lasciò allo Zar l’iniziativa in Siria per bombardare l’Isis (2015), operazione che serviva a Mosca per salvare quel gentleman di Bashar al-Assad e espandersi in Medio Oriente (oggi fino alla Libia e in mezza Africa); qualche anno dopo, fu Joe Biden a provocare uno tsunami storico con il ritiro dall’Afghanistan, deciso sì sul piano diplomatico dall’amministrazione Trump, ma eseguito in maniera disastrosa da Biden («La debacle di Biden», titolo di copertina dell’Economist, 21 agosto 2021), tanto da innescare un forcing politico della Cina in Asia centrale e, ancora una volta, aprire uno spazio per Putin che da tempo programmava l’invasione dell’Ucraina e cercava solo il momento giusto, il picco di debolezza della Casa Bianca, servito e eseguito puntualmente (2022). Sarà un caso, ma quando spunta un fiasco con la Russia, il Presidente è un democratico. No, domani non sarà un altro giorno.