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Ora siamo entrati in un mondo diverso

di Mario Sechi martedì 19 agosto 2025

5' di lettura

La storia gioca a dadi con puntualità e precisione: mentre a Washington Donald Trump iniziava uno storico vertice sull’Ucraina con Volodymyr Zelensky e i leader europei, i terroristi di Hamas tentavano di giocare la carta dell’accettazione in extremis di una tregua e scambio di ostaggi per evitare l’invasione di Gaza decisa dal governo Netanyahu. Entrambi i dossier sono aperti, le guerre sono in corso (e va sottolineato che Hamas sta solo cercando di ritardare la sua fine) ma c’è un elemento chiaro di scenario: Trump è il “game changer”, l’elemento chiave di un cambiamento storico di cui gli Stati Uniti sono la mente e la forza motrice. L’opera è in fieri, la storia insegna che tutte le guerre finiscono, ma la pace non si realizza in un giorno, è una fatica immane e le delusioni saranno ancora tante, lo “stop and go” sarà la cronaca di ogni giorno ancora per mesi.

Il presidente americano in poco più di 200 giorni ha levato di mezzo il pilota automatico dall’agenda internazionale - che non produceva più nessun reale scatto in avanti per l’Occidente e lo esponeva all’avanzata della Cina e alle minacce dell’islamismo jihadista - e ha ingranato la marcia di “America First” i cui esiti hanno spiazzato e infilato in contropiede tutti i suoi critici con il paraocchi ideologico. Il risultato è netto, “Trump rules”, guida Trump, la sua leadership genera il caos necessario per smantellare lo status quo che non funziona e la sua azione finora appare efficace come non si vedeva dai tempi di Ronald Reagan: sui dazi ha chiuso accordi che ai sacerdoti dell’economia a tavolino sembravano impossibili, sulla Difesa ha rimesso in moto la Nato in stato di «morte cerebrale» (lo disse Emmanuel Macron, non un pericoloso sovranista), sulle crisi internazionali ha inanellato con successo una serie di negoziati che hanno fatto tacere le armi. L’Ucraina, insieme al Medio Oriente, è il passaggio più difficile, i dossier sono collegati e non a caso vengono affrontati in simultanea, il supporto a Israele fa parte di un disegno americano, l’idea prima di tutto di stabilizzare le rotte dell’energia, accompagnare la trasformazione politica ed economica delle petro-monarchie, costruire con i Paesi del Golfo un centro mondiale di innovazione per reggere la sfida con la Cina. È una partita a scacchi pericolosa, il percorso è lungo ma la Casa Bianca ha aperto un nuovo capitolo nella storia delle relazioni internazionali e della diplomazia.

A cominciare dal format dei colloqui (i decani della sala stampa della Casa Bianca non avevano mai assistito a niente di simile) che abbiamo visto dispiegarsi in pochi giorni: prima l’incontro bilaterale tra Trump e Vladimir Putin in Alaska, poi a stretto giro un faccia a faccia alla Casa Bianca con Zelensky e un tavolo allargato con i leader europei che nei loro interventi hanno riconosciuto la forza dell’iniziativa di Trump. Sono apparsi tutti costruttivi, perfino Macron (che ha parlato dopo Merz e Meloni) che poche ore prima si esibiva in contorsionismi strategici, con Zelensky che vede all’orizzonte un incontro trilaterale (Ucraina, Stati Uniti, Russia) con Vladimir Putin, quello che serve per vedere se le carte del Cremlino sono sincere e squadernare i conti di una guerra tremenda in cui gli ucraini hanno versato il sangue. Per preparare il vertice ci vorrà tempo («una, due settimane», ha detto Trump) e non bisogna mai dimenticare la sfinge di Putin, il suo mistero che è quello della Russia, dall’altra parte ci sono più che le parole, i silenzi del Cremlino, ma il punto d’attacco c’è, è quello della sicurezza dell’Ucraina. E qui c’è un primo gol diplomatico dell’Italia, di Giorgia Meloni che ha incassato l’apprezzamento del presidente americano («una grande leader e una fonte di ispirazione») e ha sottolineato nel suo intervento la proposta italiana sulla sicurezza dell’Ucraina (un meccanismo che dovrebbe ricalcare quello della mutua assistenza dell’Articolo 5 del Trattato della Nato) che è al centro di questa prima discussione, è l’elemento di novità che fa muovere il negoziato e tiene insieme le aspettative di Kiev, l’esigenza dell’Europa di costruire un deterrente nei confronti della Russia, un nuovo inizio per la dottrina della Difesa del Vecchio Continente, un’assunzione di responsabilità che vedrà la partecipazione fondamentale degli Stati Uniti, della macchina del Pentagono senza la quale l’Ucraina sarebbe caduta in mano a Mosca. Si cerca anche il cessate il fuoco, ma Trump ha parlato esplicitamente della continuazione dei combattimenti (sa che Putin non è aperto alla tregua) e dunque lavora con l’idea di costruire il mosaico di un accordo complessivo. È uno scenario che la storia ripropone nel suo ciclo dell’eterno ritorno. Nel 1945 gli Stati Uniti costruirono la «pax americana» di cui per 80 anni l’Europa ha goduto, dimenticando spesso che la libertà non è un pasto gratis, un pranzo di gala in guanti bianchi.

Nel dopoguerra l’America costruì il sistema delle relazioni internazionali (l’Onu, la Nato, gli accordi del Pacifico, il sistema di Bretton Woods che fu messo nero su bianco a guerra ancora in corso, come oggi), quel mondo è finito, sono emerse altre potenze, rientrate in gioco quelle forze che si pensavano tramontate con «la fine della storia» (l’Unione Sovietica), mentre la tecnologia ha compresso e accelerato il tempo e la demografia mette l’Occidente di fronte al dilemma delle culle vuote e del governo dell’immigrazione. Gli Stati Uniti hanno ripreso in mano il timone, stanno plasmando un altro ordine, Medio Oriente e Ucraina sono i pilastri di questo disegno che si dispiega prima di tutto sulle rotte dell’energia. Sarà il primo atto di una nuova «pax americana»? Nessuno può dirlo con certezza, siamo ai bagliori di un’era in cui le mappe sono invecchiate in un lampo e i totem sono caduti da tempo. Sono ingialliti e destinati ingloriosamente al macero anche i giornali (e i talk show senza contraddittorio, dove se la cantano e se la suonano) dove per mesi il giornalismo in ciclostile ha vissuto in una realtà parallela, vendendo all’opinione pubblica non i fatti, ma i propri desideri, le frustrazioni ideologiche, le miserie della bancarotta culturale delle sinistre. Dopo il vertice in Alaska, hanno titolato sul «tappeto russo», sul «paria diventato pari», mancando completamente l’aggancio con il presente, sentenziando su un «fallimento» che, se lo fosse, sarebbe quello di maggior successo mai visto finora. Libero non ha mai ceduto al pensiero debole, perché con umiltà e dedizione abbiamo preso nota di un fatto elementare: comunque vada, siamo entrati in un mondo diverso.

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