C’è un filo politico-ideologico neanche troppo sottile che dalla Piazza Rossa di Mosca corre fino alla Città proibita di Pechino, che è quello della comune ostentazione di potere, muscoli e tecnologia con il pretesto di celebrare la vittoria nella seconda guerra mondiale. Perché sovietici, post-sovietici e cinesi festeggiano sbrodolando parate di missili, carri armati, testate atomiche e soldati irreggimentati in coreografie magniloquenti e retoriche? Ma soprattutto: perché nel mondo libero non c’è niente di simile? A Londra si tenne la grande parata del Victory Day l’8 giugno 1946: prima e ultima. Il mondo era già cambiato, l’innaturale alleanza antihitleriana con Stalin dopo l’appropriazione di una grande fetta dell’Europa facendo pure credere (e in Italia c’è chi lo crede ancora) che l’aveva liberata, e la cerimonia non venne né istituzionalizzata né replicata. Guarda caso l’Urss si rifiutò di partecipare, la Jugoslavia comunista fece lo stesso, la Polonia sovietizzata si allineò.
L’Urss s’era dedicata la sua Giornata della vittoria, estesa ai Paesi satelliti, per il 9 maggio. La prima edizione fu voluta da Stalin il 24 giugno 1945 con tutto l’enfasi di celebrazione marziale della Grande guerra patriottica e il trionfo della volontà del popolo e dell’Armata Rossa. Milioni di morti, civili e militari, e una serie di bugie e di omissioni. Se l’Urss non era tracollata sotto i colpi di maglio della Wehrmacht, la spiegazione sta in tre parole: Lend-Lease Act, ovvero Legge affitti e prestiti. Ovvero, oltre 14.000 aerei (anche gli inglesi, svenandosi, fornirono i formidabili Spitfire snobbati dai sovietici), poco meno di mezzo milione di veicoli d’ogni tipo, comprese circa 40.000 Jeep, carri armati Sherman e blindati a decine di migliaia, 130.000 pezzi d’artiglieria, esplosivi per centinaia di migliaia di tonnellate, 28 fregate e 140 cacciatorpediniere, e materiali di ogni tipo e per ogni necessità, per oltre 11 miliardi di dollari dell’epoca (per attualizzare l’importo basta moltiplicare per 15). Sorvolando sul fatto che alla fine della guerra tutto fu occultato da Stalin, perché incompatibile col mito della Grande guerra patriottica, concetto riespresso ed enfatizzato la prima volta da Vladimir Putin nel 2021, più volte ribadito e adesso pure consegnato al testo unico di storia per manipolare e uniformare gli studenti russi.
Il Cremlino ritenne che le cifre da risarcire fossero esagerate e così persino la generosissima richiesta di Washington di saldare almeno 1,3 miliardi, concedendo pure la spalmatura in trenta anni: quando arriverà il 1972 Mosca aveva restituito la miseria del 6% dell’importo scontatissimo. È stato sin troppo diplomatico Donald Trump nel tirare l’orecchio a Xi Jinping vestito da Mao, ricordandogli di aver dimenticato l’imprescindibile aiuto americano nella vittoria della Cina sul Giappone.
Il contributo cinese fu trascurabile e dipese dalle forniture americane, sempre per la Legge affitti e prestiti dell’11 marzo 1941. Se all’Urss erano stati destinati 11,3 miliardi, alla Cina in guerra contro il Giappone dal 1937 andarono 1,6 miliardi sotto forma di aerei da combattimento, armi ed equipaggiamento, appoggio logistico e rifornimenti di ogni genere che consentirono ai cinesi di non essere schiacciati dai giapponesi.
Il Sol Levante si arrese allo strapotere americano palesato con le due bombe atomiche, non certamente per la forza della Cina. Il presidente Harry Truman proclamerà il 14 agosto, data della capitolazione nipponica poi sancita il 2 settembre (il giorno celebrato a Pechino), come V-J Day, ma volle che fosse un giorno di commemorazione e di preghiera in ricordo dei caduti che resero possibile la vittoria del mondo libero. La parata militare di Pechino, trasformata in prova generale di fronte antioccidentale da leader antidemocratici, ha incantato anche qualcuno delle nostre parti, espressione tipologica di chi finge di non vedere il rosso per gongolare su un pericolo che c’è, e ideologicamente simula di vedere il nero per strepitare al fascismo che non c’è.