Ma poi, a mente fredda, cosa ci addolora e ci indigna di più a proposito dell’incommensurabile tragedia dell’assassinio di Charlie Kirk? L’elenco è potenzialmente infinito. L’atrocità di una vita spezzata a 31 anni, con due figli che resteranno senza papà. La violenza di chi non esita, per combattere un’idea, ad abbatterne fisicamente il portatore (di destra e dunque “fascista”). La torma di belvette social che festeggiano a cadavere ancora caldo. Gli inqualificabili cattivi maestri della politica e dei media progressisti che - elegantemente, dottamente, furbescamente - giustificano tutto, contestualizzano, e in ultima analisi finiscono per colpevolizzare la vittima che “se l’è cercata”. I soliti noti che sembrano più preoccupati della reputazione di “Bella ciao” che non di un feroce omicidio. C’è n’è per tutti i disgusti.
Ma personalmente - confesso - c’è in questa tragedia una cosa laterale, apparentemente marginale, che mi lascia letteralmente sgomento. Più leggo presunti “ritratti” critici di Charlie, più leggo le descrizioni che ne fanno a posteriori i commentatori progressisti, e più mi convinco che la stragrande maggioranza di loro non abbia mai assistito (né prima né dopo l’omicidio) nemmeno a tre minuti di conferenze ed eventi di quel meraviglioso ragazzo. Kirk era un diamante. Sono personalmente convinto che, tra una decina o una quindicina d’anni, lo avremmo visto in corsa per la Casa Bianca. Cristiano, certo. Pro Israele, altrettanto. Repubblicano pro Trump ma pure a favore di un governo limitato, insomma non era uno statalista. Ma tutto questo (cioè il merito delle sue convinzioni liberalconservatrici) oggi mi interessa fino a un certo punto. Ciò che conta (e lo ripeto: questo è ciò che i suoi critici non hanno avuto alcun interesse, nemmeno postumo, a “scoprire”) era il suo approccio socratico.
Sì, avete letto bene: socratico. Credeva nelle parole, nelle argomentazioni, nel valore maieutico delle domande, prim’ancora delle risposte. Riguardate alcune scene, in cui lui - peraltro - si dimostrava pazientissimo anche con gli studenti di sinistra più stronzetti, ignoranti come capre, e pregiudizialmente aggressivi contro di lui. Quelli gli dicevano: «Perché sei venuto qui?». E lui, imperturbabile, spiegava che proprio il dialogo preserva una società dal rischio della violenza. Aveva letteralmente previsto i rischi a cui era esposto. O ancora, un altro militante (un po’ militonto a onor del vero) gli grida: «Fascista». E lui, calmo come un monaco buddista: «In che modo sarei fascista? Spiegamelo. Sono forse fascista perché sto qui da due ore a dare il microfono a quelli che la pensano come te?». Era uno spettacolo non solo dialettico, perché Charlie non era un sofista, non era uno che si compiaceva per il puro gioco con le parole.
No: era sinceramente convinto che tutti - amici e avversari - dovessero armarsi di argomenti per salire sul ring delle idee. Ecco: possibile che tutto questo non abbia suscitato nemmeno un minimo di curiosità neanche post mortem? Niente: i suoi critici anche italiani hanno troppa fretta di lasciarlo incasellato secondo i loro schemini precostituiti, i loro pregiudizi, le loro lavagne dei “buoni” e dei “cattivi”. Occhio però. Perché- di sicuro involontariamente - questa disattenzione sistematica rispetto a ciò che lui era davvero è l’antipasto della “disumanizzazione” del nemico. È - spiace dirlo esattamente la “logica” terroristica: quella per cui occorre colpire un “simbolo” indipendentemente dalla persona che sta dietro una divisa o un ruolo o una posizione “odiata”. Ci sarà qualcuno desideroso di riflettere su questo delicatissimo terreno? Lo spero tanto, ma purtroppo quasi non ci credo più.