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Tony Blair è l'ultimo ledaer rimasto alla sinistra

Il 72enne non sarà il nome più ovvio cui rivolgersi quando si tratta di Medio Oriente, alla luce delle conseguenze delle guerre in Iraq e in Afghanistan, ma ci sono tre reazioni a conferma che, nell’affiancare il presidente statunitense, ha intrapreso la strada giusta
di Costanza Cavalli mercoledì 1 ottobre 2025

4' di lettura

A sinistra Tony Blair è rimasto l’unico «audace e intelligente», come l’ex primo ministro britannico ha definito il piano di Donald Trump per Gaza, in base al quale farebbe parte di un “Consiglio per la pace” di supervisione internazionale una volta cessato il fuoco tra Israele e Hamas. Il 72enne non sarà il nome più ovvio cui rivolgersi quando si tratta di Medio Oriente, alla luce delle conseguenze delle guerre in Iraq e in Afghanistan, ma ci sono tre reazioni a conferma che, nell’affiancare il presidente statunitense, ha intrapreso la strada giusta. La prima è quella di Hamas: per l’organizzazione terroristica, che tiene sotto controllo Gaza e usa suoi cittadini come scudi umani da 18 anni, responsabile del peggior pogrom contro gli ebrei dalla Seconda guerra mondiale, i venti punti della proposta americana sono inaccettabili. L’iniziativa di Washington si basa su un dossier cui hanno lavorato per mesi proprio Blair complice del crimine dell’Iraq - e l’ex consigliere senior della Casa Bianca Jared Kushner, la mente degli Accordi di Abramo, che si sono poi coordinarti con l’inviato speciale degli Stati Uniti in Medio Oriente Steve Witkoff.

Blair non si è inventato un ruolo: qualche mese dopo aver lasciato Downing Street, alla fine del suo secondo mandato nel 2007, a 54 anni appena, fu nominato come inviato del Quartetto per il Medio Oriente, un gruppo diplomatico composto da Stati Uniti, Nazioni Unite, Unione Europea e Russia che ha tentato, senza successo, di promuovere una soluzione pacifica del conflitto israelo-palestinese. L’esponente della Terza via ricoprì quel ruolo per otto anni, attirandosi non poche critiche a causa della malcelata disposizione per i denari ma conquistandosi anche privilegiati rapporti diplomatici con i leader arabi, compresi quelli dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi Uniti. Di certo non si potrà dargli del pigro: in un’intervista del 2011 dichiarò di aver fatto avanti e indietro tra Londra e i Paesi arabi 74 volte. Non è stato pigro neanche stavolta, lavorando ai piani per Gaza per più di un anno a titolo individuale, avvalendosi del Tony Blair Institute for Global Change, la sua organizzazione no profit, per formulare uno dei punti cruciali della proposta, ovvero l’istituzione di un’amministrazione fiduciaria internazionale per l’enclave palestinese.

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«È uno dei pochi a conoscere a fondo gli islamisti ed è stato capace di cambiare idea», spiega a Libero Lorenzo Vidino, direttore del Program on Extremism della George Washington University. Dopo gli attentati del 2005 Blair scelse come consulente l’islamologo Tariq Ramadan, impegnato a sdoganare i Fratelli musulmani nelle istituzioni europee, ma capì in fretta che il sodalizio fra islamologi come Ramadan e una parte dei Labour era un abbaglio: «Da anni ormai ha come advisor Ed Husain, esperto di movimenti islamisti, politiche anti-terrorismo e geopolitica del Medio Oriente. Poi, certo – conclude Vidino – non si può negare che abbia interesse negli affari», vedi il progetto della Gaza Riviera e, negli anni scorsi, gli affari in particolare con gli Emirati Arabi Uniti. Ad Abu Dhabi, la sua aosicetà di consulenza, chiusa quasi un decennio fa, annoverava tra i suoi clienti Mubadala, uno dei fondi di investimento sovrani più attivi della capitale.

Sulla bontà, pur con delle ombre, della presenza di Blair nell’operazione americana concorda anche Yahya Pallavicini, Vice Presidente e imam della CO.RE.IS., la Comunità Religiosa Islamica, Italiana: «A parte la guerra in Iraq, Blair ha dimostrato di essere ben impegnato sul fronte del dialogo collegato alle sfide delle relazioni internazionali. Penso che possa rappresentare una figura di riferimento di saggezza e grande esperienza diplomatica, anche se non gli manca l'ambizione di cavalcare l'onda di un altro successo a fine carriera inoltrata». E Hamas? «Temo che voglia sempre cercare pretesti per ribadire la sua sfiducia nei confronti di un mediatore percepito come l’ennesimo delegato dell'imperialismo occidentale», analizza Pallavicini. La seconda reazione che indica la giustezza delle scelte dell’ex leader dei Labour è quella degli attuali funzionari del suo partito: nel Regno Unito, scrive Bloomberg, giudicano il coinvolgimento di Blair «imprudente e potenzialmente dannoso per Starmer», che già se la passa malaccio e che ha appena riconosciuto uno Stato palestinese.

L’ala blairiana del partito, che ancora resiste a 18 anni di distanza dal suo addio alla politica, invece, non solo gli riconosce una preparazione sul campo, ma anche capacità di mediazione. Infatti, fu lui a negoziare l’accordo di pace del Venerdì Santo per l’Irlanda del Nord nel 1998 (e molte caratteristiche di quell’accordo si ritrovano infatti nel Patto per la pace presentato due giorni fa: tra le altre cose, un piano graduale piuttosto che una serie di proposte “prendere o lasciare” e l’amnistia per i terroristi), così come fu sua la leadership nella campagna della Nato contro la Jugoslavia durante la guerra del Kosovo. Laggiù i bambini si chiamano Tonibler proprio in onore dell’ex premier e del ruolo che ha svolto nella liberazione del Paese. Queste capacità diplomatiche lo rendono un candidato ideale per contribuire a porre fine alla guerra a Gaza. La terza è quella della sinistra tutta: Blair appartiene a quella cerchia molto ristretta di ex leader che mantengono buoni rapporti sia con le nazioni arabe che con Israele perché furbissima volpe della diplomazia. Noi gli troviamo un difetto soltanto: nel 2008 non riuscì a risolvere la questione. Ma Donald Trump gliene perdona, di difetti, addirittura due: aver fallito ed essere progressista.

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