Da una parte i sogni, dall’altra la realtà. Da una parte le nobili intenzioni, dall’altra la strada per l’inferno. Qualcuno, va detto, aveva visto sin dall’inizio che l’auto elettrica sarebbe andata a sbattere. In Giappone, ad esempio, affrontando le critiche dei radical chic nipponici, la Toyota ha da subito puntato sulle auto ibride per abbattere le emissioni senza devastare le linee di produzione. Pure quel “pazzo” di Donald Trump appena eletto ha detto che ogni cittadino deve essere libero di comprarsi l’auto che vuole. Qualcuno, ovviamente inascoltato, ha provato a dirlo anche in Europa, rischiando la lapidazione come bieco negazionista del cambiamento climatico. Per iniziare a demolire il trionfale castello ideologico del green deal ci sono volute le ammaccature e le lamiere contorte ormai diffuse e ben visibili nell’intero comparto. I costi, la limitata autonomia, la difficoltà dei punti di ricarica e, forse, anche la passione degli automobilisti per il vecchio rombo del motore a scoppio, hanno decretato il fallimento della marcia forzata verso la mobilità a batteria. Le fabbriche chiudono, i lavoratori vanno in cassa integrazione, i profitti si assottigliano. E tutti, adesso, pur senza mettere in discussione il sacro tragitto verso un trasporto più green, sembrano pronti a far marcia indietro.
Lo ha fatto, come ha raccontato il Wall Street Journal qualche giorno fa, il primo ministro canadese Mark Carney, fervente ambientalista, sospendendo l’obbligo di vendita di auto elettriche che sarebbe scattato il prossimo anno, lo ha fatto il primo ministro britannico Keir Starmer, anche lui politicamente imbevuto di luoghi comuni sulla difesa del pianeta, concedendo una tempistica più flessibile per la decarbonizzazione, e lo ha fatto, finalmente, pure Ursula von der Leyen, ex paladina del green deal ora spinta a più miti consigli da un’industria dell’auto alla canna del gas e da una maggioranza non più disposta a sacrificare le filiere produttive sull’altare dell’ecologia talebana. Come ha spiegato Christian Meunier, presidente di Nizzan Americas, riferendosi non solo agli Usa ma a gran parte del mondo occidentale, «c’è più realismo sul fatto che i veicoli elettrici siano una buona soluzione per il futuro, ma non saranno imposti ai clienti. È pragmatismo».
Ecco, il pragmatismo. Questo vocabolo semi sconosciuto che torna vittorioso dalla battaglia tra le utopie e il mondo concreto. Una realtà con cui iniziano a fare i conti persino i cinesi. A Pechino dell’ambiente non frega niente, ma di conquistare il mercato occidentale impazzito per l’elettrico sì. E nel giro di pochi anni, costi bassi della manodopera, fabbriche alimentate con l’inquinantissimo ma economico carbone e una capacità straordinaria di fare copie più belle degli originali, il Dragone è riuscito a invadere il mondo con i suoi prodotti. Ora, però, anche lì le cose non stanno più andando bene. Le vendite continuano a crescere, spiega il WsJ, «ma sempre più a scapito della redditività, mentre le case automobilistiche lottano per conquistare clienti in un mercato ipersaturo».
La previsione di AlixPartners è che gran parte dei 118 marchi di veicoli elettrici operanti in Europa tra cinque anni finirà gambe all’aria. Del resto, è difficile pensare che siano tutti impazziti. Forse lo erano prima. I manager di Stellantis hanno detto chiaramente che gli obiettivi green imposti dalla Ue non sono raggiungibili. Anche la Volkswagen e la Porsche hanno ridimensionato i target green, così come quasi tutti i marchi europei. E lo stesso sta accadendo dall’altra parte dell’Oceano, dove allo scarso gradimento dei consumatori si aggiunge il taglio dei sussidi dell’amministrazione Trump. Aiuti o no, le stime sono impietose. Per Alix Partners i veicoli elettrici nel 2030 saranno al 18% del mercato, la metà di quanto previsto due anni fa. Qualcuno ha sbagliato i conti. Oppure pianeta.