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Migranti, mutilate 88mila donne. Femministe, dove siete?

La legge italiana che ha dichiarato reato l’infibulazione compirà 20 anni il prossimo 9 gennaio, ma oggi le vittime di questa pratica tribale sono aumentate
di Costanza Cavalli venerdì 24 ottobre 2025

3' di lettura

La legge italiana che ha dichiarato reato l’infibulazione compirà vent’anni il prossimo 9 gennaio: è la numero 7 del 2006, prescrive l’aggiunta nel codice penale dell’articolo 583-bis, che punisce con la reclusione da 4 a 12 anni chi cagiona una mutilazione degli organi genitali femminili. Finora se ne può constatare l’insuccesso: le vittime di questa pratica tribale sono aumentate.

Nel 2019, secondo uno studio condotto dall’Università Milano Bicocca, si stimava che fossero 80mila le donne ad aver subìto l’operazione, al ritmo di 5mila nuove bambine l’anno. La seconda edizione di quell’indagine è stata pubblicata ieri: nel 2023, si legge, il numero è salito a 88.500 e le bambine sotto i 15 anni che rischiano di essere infibulate sono 16mila. Si tratta prevalentemente di donne nate all’estero (il 98%) e Over 50, le comunità con numeri assoluti più alti sono egiziane, nigeriane ed etiopi. L’incidenza più alta si registra tra le donne somale, sudanesi e guineane. Ce ne fossa una, tra le femministe appassionate di desinenze e di asterischi e di empowerment rosa, ad aver alzato la voce in solidarietà verso chi ha subìto questa disumana violenza cui si sommano il silenzio e la sottomissione.

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Ce ne fosse una ad essere scesa in piazza contro chi l’ha perpetrata nelle nostre città, dove è una pratica inafferrabile, che si diffonde sottotraccia, non sanabile dall’integrazione perché non debellabile nei Paesi d’origine (è un’usanza culturale in 30 nazioni africane). Ce ne fosse una ad aver mostrato video di denuncia come “Infibulation d’une fillette”, un minuto e quaranta di ribellione e latrati di una bimba di sei anni.

L’ha spiegato ieri Esraa Newir, una delle giovani attiviste di Youth in Action, progetto che ha l’obiettivo di contrastare la pratica in Italia: «Le mutilazioni genitali femminili non sono un problema che riguarda solo i Paesi lontani. Chi le ha subite vive qui, nei nostri quartieri, nelle nostre comunità». Nel mondo le vittime sono 230 milioni, 600mila in Europa. «Le famiglie importano persino i vecchi tagliacapelli dal loro Paese per svolgere il rito qui», è stato l’allarme lanciato da Valerie Lolomari, fondatrice di Women of Grace UK. Nelle comunità in cui predominano la superstizione e le pressioni sociali, aveva spiegato, chi si oppone alla carneficina rischia di essere emarginato.

Non resta che la sensibilizzazione dell’opinione pubblica, visto che niente può nemmeno la legge: sulle cronache si trova solo una condanna risalente al 2018. A Torino, una donna di origine egiziana venne condannata a due anni e due mesi di reclusione per mutilazione genitale nei confronti delle due figlie. Come da definizione dell’Oms, le forme di rimozione parziale o totale dei genitali femminili racchiudono tre varianti, diverse per gravità: il primo tipo è la rimozione del prepuzio del clitoride; nel secondo si aggiunge il taglio delle piccole labbra; l’ultimo consiste nell’eliminazione completa delle piccole labbra e nella cucitura delle grandi labbra, con chiusura quasi completa della vulva, tranne che per un piccolo foro, lasciato per far passare l’urina e il sangue mestruale.

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Ma le femministe, quando devono decidere di cosa occuparsi, sarà forse per quel meccanismo inconscio che induce al rifiuto dell’orrore, preferiscono prendersela con i fattarelli di giornata, a meno che non si tratti delle offese a Meloni, tacciata di prostituzione politica senza che le pasionarie di sinistra facessero un plissé. Tutto come da copione.

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