Non ancora nella lista dei “cattivi”, come l’Ungheria e l’appena poco più defilata Polonia dove c’è però Donald Tusk a fare da garante, la Repubblica Ceca è guardata con sospetto dai burosauri dell’Ue dopo il pasticciaccio di Bruxelles sugli asset russi. I cechi hanno per presidente della Repubblica il generale Petr Pavel, ex militare dei tempi del Patto di Varsavia, abilissimo a riconvertirsi al nuovo corso democratico segnato da Vaclav Havel, e da poche settimane ha al governo un uomo d’affari come Andrej Babiš, peraltro non nuovo a quest’esperienza.
Nella patria dell’umorismo dissacrante di Jaroslav Hašek, si dice tra una birra e l’altra che in Repubblica Ceca la destra fa politiche di sinistra e la sinistra ha idee di destra. Figurarsi se questo può essere compreso in Italia dove tutto è radicalizzato e manicheo, oppure a Bruxelles dove le solite sinistre già sventolano i lenzuoli degli spettri dei Quattro di Visegrad dopo le perplessità sulle manovre attorno agli asset, puntualmente rivelatesi come velleitarie, e l’allergia da sempre ad allargare le maglie della cosiddetta accoglienza dei migranti che non è né spontanea né volontaria, figurarsi se può essere imposta.
Sarà un caso ma a Praga le stazioni sono sicure senza presidio dell’esercito con autoblindo, non risultano assalti alle ragazze sole né nelle metropolitane né alle fermate dei tram, il femminicidio non è un’emergenza e la cronaca nera non apre i giornali. E poi, udite udite, i talk show politici non si moltiplicano per sporogonia sui canali tv e di solito quando qualcuno parla prima di replicare lo si ascolta. Da noi si sostiene, a sinistra, che è il retaggio dell’epoca comunista (tacendo che allora era meglio non parlare e i dibattiti politici erano a senso unico), oppure dell’educazione asburgica (l’imperatrice Maria Teresa d’Asburgo che scolarizzò la Boemia qui è ancora venerata). Sfuggire alla classificazione e ai luoghi comuni che sclerotizzano le visioni monodirezionali dell’Ue è sin troppo semplice, in uno Stato che ancora viene considerato semiateo ma dove ci sono quattro chiese cristiane: cattolica, protestante, hussita, ortodossa, e cinque se si considera quella uniate ucraina. E poi gli ebrei, che qui hanno fatto la storia. Non ci sono contrasti religiosi e l’Islam è stato tenuto fuori.
Gli ucraini sono dappertutto, forse troppi rispetto alla popolazione di Boemia, Moravia e Slesia, poco meno di 11 milioni di anime che hanno assorbito l’onda di centinaia di migliaia in fuga dalla guerra scatenata da Putin. Solidarietà, accoglienza, persino privilegi, e oggi anche il fiato corto di una situazione che, quando i cannoni cesseranno di tuonare, è probabile che si stabilizzerà, non col rientro. Che il provvisorio possa diventare il definitivo è un timore palpabile, e la stanchezza per la guerra che si protrae oltre il prevedibile anche, con tutte le ricadute sociali ed economiche. Il costo della vita, per le politiche energetiche, quelle comunitarie e quelle dettate dalle circostanze, è aumentato e non solo nella capitale sotto assedio turistico con ovvie impennate dei prezzi e boom del costo degli affitti.
La corona ceca è solida quanto basta per scansare le tentazioni di ingresso nell’euro, altro che Bulgaria. Che Praga, con 4 centrali atomiche di progettazione e tecnologia nazionale, sia refrattaria al delirio green sta nella natura delle cose e nello spirito ceco. La Škoda, marchio che nello spezzatino operativo va dalle auto ai treni (e ai tempi dell’impero austroungarico ai formidabili cannoni che poi gli italiani usarono anche nella seconda guerra mondiale), ha prodotto e venduto due volte le vetture dell’ex Gruppo Fiat. Per trovare ancora una Trabant fumante sulle strade ceche, dominate da suv modernissimi di grossa cilindrata, ci vuole un colpo di fortuna o un raduno di nostalgici poi in birreria a sbicchierare. La legge sull’alcool è riassumibile così: se bevi non guidi, se guidi non bevi. Vale anche contro le ubriacature europeiste.




