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Mario Draghi, "Europa sotto attacco: cosa aspettano i leader?"

di Antonio Castro sabato 25 ottobre 2025

3' di lettura

«Il mondo intorno a noi è cambiato radicalmente e l’Europa fatica a rispondere». L’analisi dell’ex presidente della Bce e presidente del Consiglio, Mario Draghi, è impietosa. «Oggi», scandisce ricevendo a Oviedo, in Spagna, il Premio Princesa de Asturias per la Cooperazione internazionale, «la prospettiva per l’Europa è tra le più difficili che io ricordi. Quasi ogni principio su cui si fonda l’Unione e sotto attacco». Il cambiamento è stato profondo: «Abbiamo costruito la nostra prosperità sull’apertura e sul multilateralismo: ora affrontiamo protezionismo e azioni unilaterali».

Colui che ha fermato con mezzi (finanziari come il quantitive easing ), e chiari avvertimenti gli speculatori scatenati contro l’Europa, passerà probabilmente alla storia anche per essere riuscito a frenare l’assalto speculativo. È il 26 luglio del 2012. L’Europa è in profonda difficoltà. Lo spread sale sulle montagne russe. In Grecia tornano a soffiare pesanti venti di crisi. L’euroscetticismo inglese è dirompente. Banche, governi e istituzioni traballano. Proprio quel 26 di luglio, Draghi, da meno di un anno al timone della Bce, alla conferenza di Londra pronuncia la frase che cambia la storia della crisi: «Entro il suo mandato la Bce preserverà l’euro, costi quel che costi. E, credetemi, sarà abbastanza». Scandisce: «“Whatever it takes”» (liberamente tradotto: “e sarà abbastanza”. Che ha il suono di una cannonata. Gli speculatori si ritirarono.

La Banca centrale schiera l’artiglieria pesante: procede a puntellare il sistema economico Ue. A cominciare dall’acquisto senza limiti di azioni, obbligazioni e titoli di Stato. L’operazione riporta fiducia sui mercati e stabilizza il continente. E ora, 12 anni dopo, Draghi torna a fornire alle cancellerie europee le sue riflessioni. Che suonano come una inappellabile critica collettiva condensata in «una domanda cruciale: perché non riusciamo a cambiare? Ci viene spesso detto che l’Europa si forgia nelle crisi. Ma quanto grave deve diventare una crisi affinché i nostri leader uniscano le forze e trovino la volontà politica di agire?

Dopo la grande crisi finanziaria e quella del debito sovrano la Bce, anche grazie al suo mandato europeo, si è evoluta in un’istituzione più federale: è stata anche avviata l’unione bancaria», ricostruisce. «Ma da allora, le nostre sfide sono diventate sempre più complesse e ora richiedono un’azione comune da parte degli Stati membri». E qui saltano fuori gli ambiti di intervento più urgenti: «Difesa, sicurezza energetica e tecnologie di frontiera che necessitano di scala continentale e investimenti condivisi. E in alcuni di questi settori, soprattutto difesa e politica estera, è necessario un grado più profondo di legittimità democratica. Da molti anni non abbiamo modificato la nostra governance». Evidentemente un enorme problema.

«Oggi siamo una confederazione europea che semplicemente non riesce a far fronte a tali esigenze», osserva. «Questo lascia responsabilità a livello nazionale che non possono più essere gestite efficacemente. E anche se volessimo trasferire più poteri all’Europa, questo modello non ci offre la legittimità democratica per farlo. Non è solo una questione di vincoli giuridici dei trattati Ue. Il vincolo più profondo è che, di fronte a questo nuovo mondo, non abbiamo costruito un mandato condiviso approvato dai cittadini per ciò che, come europei, intendiamo fare insieme». Più chiaro di così...

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