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Vittorio Feltri e quella storia di un amore infelice: quando si parla di morte e di come ci seppelliranno

di Davide Locano domenica 24 marzo 2019

4' di lettura

Me ne accorgo sin dalla prima riga del romanzo (breve) di Alain Elkann. L'eleganza è lui stesso. Si trasferisce nella prosa, nei sentimenti, nello sguardo sulla donna che ama riamato, con profondità e delicatezza, ma senza decidersi a farne il suo tutto, perché il pensiero della morte e della tomba lo avvolge come uno scialle, e non vuole trascinarla lì dentro. Il protagonista di queste 89 pagine, che si vorrebbe non finissero mai, è un ebreo errante tra Parigi, New York, Torino, Londra e Gerusalemme. Le sue radici sono in Europa, e desidera tornare lì, accanto al padre, nel cimitero di Montparnasse, poiché egli è ebreo, appartiene a un popolo, a una famiglia. A Dio non sa, in quanto non è proprio credente, ma prega, posa tra le fessure del Muro del Pianto i suoi desideri. Non sa neppure di averne, ha rinunciato. Ed allora sul pezzo di carta mette semplicemente in fila dei nomi, li pianta nel muro quali semi o illusioni dinanzi al nulla divorante della morte che verrà. Il titolo però non è dedicato a Milan chiamato Misha, l' io narrante che in queste pagine ruba il nome di Alain, ma ad Anita (Giunti, 18,00). La copertina ha impresso un volto femminile maturo e bellissimo, scelto da Elkann tra le opere di Alex Katz, grande artista, esponente del Nouveau Réalisme. Noi immaginiamo sia lei, per forza che è Anita. L' ombrello non la ripara dalle gocce di pioggia, che sono come lacrime e sfiorano le sue labbra rosse. E noi, insieme a Misha, ci domandiamo: perché l' hai lasciata andare via, non l' hai trattenuta presso di te, dandole quello che chiedeva? La risposta non c' è. Io non l' ho trovata. Ciononostante chiuso e posato questo piccolo grande libro che mi ha accompagnato due ore di una notte come tante, mi sono accorto che non è stata una notte qualsiasi. Leggi anche: "Un suicidio da stupidi": Feltri demolisce Giulia Sarti Anita compare nella vita di Milan a New York, entra per caso, mentre il protagonista è costretto a stare immobile su un divano, giacché porta un gesso, essendosi rotto un gamba o un piede a Londra. È solo, non ha amori. Un' amica studia la sua pratica sentimentale e pensa ci sia una francese adatta a lui: Anita. Si incontrano, accade. Il seguito è un andare avanti e indietro, con delicatezza, amarezza, dolcezza, tutte le gamme dei sentimenti, nella contemplazione di strani momenti di abbandono felice su un' isoletta greca, e l' impossibilità di smettere di parlare o, al contrario, di rinunciare all' incanto del silenzio. Oltre ad Anita e Misha ci sono altre persone, di ogni genere, artisti, poeti, tutti immersi in uno status di vita alto borghese con frequentazioni nelle più belle case del mondo, dovunque esse siano. Ci si chiede: le domande che questo libro si pone sulla vita, l' amore e la morte sono figlie della noia? Rappresentano un lusso che può permettersi solo chi per discendenza familiare ed educazione sopraffina parla cinque lingue, fa colazione con un Nobel e ha nidi sugli alberi più belli di tutti i continenti? Interrogativo legittimo. Come credo la gran maggioranza dei miei venticinque lettori, non ho natali che mi permettano di arrampicarmi su un albero genealogico, ci spostiamo di trenta-quaranta chilometri. Io in particolare non sono un bergamasco errante. Eppure l'arte - e qui c' è - ha un dono: tracima le appartenenze sociali e religiose, diventa possesso di chiunque se ne lasci afferrare, anzi, in questo caso, accarezzare. Rivelo un particolare decisivo e che parrà stravagante, ma non lo è affatto. I discorsi e i ragionamenti di Misha e Anita, così come quelli coi loro amici, girano intorno a un dilemma: lasciarsi seppellire secondo tradizione ebraica (o cattolica), oppure farsi cremare? A pagina 69 c' è un dialogo che ripropongo. Misha va a colazione con un amico scrittore, e discutono delle loro opere. Dice Misha: «Io sto scrivendo qualcosa che non è né un diario né un saggio né un romanzo, è una cosa. È come se non avessi più voglia di scrivere romanzi». L' amico: «Sai che anch' io non ho più voglia di scrivere romanzi? A volte sono solo delle storie per distrarre lo scrittore dai suoi pensieri quotidiani. Cosa stai scrivendo?». Misha-Alain: «Una cosa sulla mia morte, sulla morte in generale, su come essere seppelliti, cremati o non cremati. È un problema serio che riguarda tutti, che ha riguardato tutte le civiltà». Non c' è niente di macabro in tale rincorrersi di scatolette di cenere appoggiate qua e là per la casa, o di cadaveri che diventano scheletri sì, ma vicino allo scheletro del padre. L'eleganza non va in putrefazione, non si incenerisce, è un modo di respirare vita, amore e morte. Ma secondo me Alain non doveva lasciar partire Anita, chiunque ella sia. di Vittorio Feltri

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