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Fini balbetta sugli elogi a Dell'Utri: funerale in diretta da Santoro

A "Servizio Pubblico" è andato in onda il requiem politico del derelitto leader futurista
di Andrea Tempestini domenica 20 gennaio 2013

Gianfranco Fini

2' di lettura

di Massimo De' Manzoni Siamo onesti: neppure San-toro poteva compiere il miracolo di resuscitare Gianfranco Fini. Così il conduttore di Servizio Pubblico ha fatto l’unica cosa possibile: gli ha dato sepoltura. C’è da dire che non è stato difficile: il cadavere ha attivamente  cooperato. Già mezzo imbalsamato al momento di sedersi nell’arena dove la settimana prima aveva spopolato il suo arcinemico, Fini è via via sprofondato nella fossa che contribuiva a scavare con le sue mani. Imbarazzante mentre sproloquiava di «liberal capitalismo» fino a farsi bacchettare da maestro Michele. Inguardabile quando, nello sforzo di arginare il capo della Fiom Maurizio Landini, prima si atteggiava a vittima di inesistenti prevaricazioni verbali e poi abborracciava qualche frase imparaticcia, carpita a una cultura liberista che gli è del tutto estranea. Improponibile nel suo ergersi a fustigatore della spesa pubblica: lui, che di spesa pubblica campa da sempre e nei sottoboschi della pubblica amministrazione raccattava quei pochi voti che gli erano rimasti fino a ieri. Francamente odioso nello stizzito, quanto vano, tentativo di liquidare con una battuta sprezzante l’ex sodale di un partito che fu, l’avvocato Roberto Vassalle, reo di aver elencato una serie di accuse alle quali Fini non era palesemente in grado di ribattere in modo sensato. Patetico nella balbettante autodifesa di fronte all’arringa di Marco Travaglio, che ha martellato mettendo a nudo le piroette e il vuoto sostanziale del soggetto, ottenendone un’invocazione di attenuanti generiche in cambio di un desolante mea culpa su tutti i fronti. Stralunato man mano che si rendeva conto che, ohibò, non era sufficiente quel ditino alzato in faccia al Cavaliere un paio di anni fa per ottenere l’agognato salvacondotto: quel totem al quale si aggrappa a ogni comparsata tv non impressiona più neppure il meno maldisposto degli interlocutori; quel suo rivendicare un ruolo decisivo nell’abbattere il tiranno di Arcore nel mentre piagnucola per essere stato espulso dal Pdl ormai suona incoerente anche all’uditorio più benevolo. Penoso nell’arrampicata sugli specchi dopo la visione del filmato nel quale lui, Fini Gianfranco, si sperticava negli elogi a Marcello Dell’Utri e alla sua umanità: «Ma all’epoca io non sapevo, i suoi guai giudiziari sono successivi», ha belato. Reazione da vero uomo con la schiena dritta che ha indotto Santoro a mettere fine alle sue sofferenze: «Guardi, il filmato è del 2006, la prima condanna di Dell’Utri è del 2004». Un epitaffio. Poi Michele-chi ha voltato pagina e si è messo a parlare d’altro, mentre la lapide scendeva lentamente sul politico rimasto presidente della Camera a dispetto di se stesso e delle sue promesse. E tutto questo senza che per l’intera serata fossero neppure state pronunciate le parole «Montecarlo», «cognato», «Tulliani», «scorte», «Corallo» (solo «slot machine», ma Matteo Salvini non ha colto o non ha voluto infierire).  Se nel prossimo Parlamento vedrete circolare ancora uno con la faccia di Fini, cominciate a pensare seriamente che forse gli zombie non sono un’invenzione letteraria.

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