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Facci a Travaglio: così i giudici smontano la tua toga preferita

di Filippo Facci domenica 16 giugno 2013

Filippo Facci e Marco Travaglio

3' di lettura

Cominciamo col ricordare che i colleghi di Panorama Riccardo Arena e Andrea Marcenaro e Giorgio Mulè, pochi giorni fa, sono stati condannati al carcere (gli ultimi due senza sospensione della pena, come Sallusti) solo perché avevano evidenziato gli stessi snodi sui quali ora indaga nientemeno che il Csm: divisioni all’interno della procura di Palermo, una cattiva circolazione delle informazioni all’interno dell’ufficio, un’eccessiva e condizionante vicinanza tra il procuratore capo e Antonio Ingroia, un difetto di coordinamento che oltretutto avrebbe portato alla mancata cattura del latitante Matteo Messina Denaro. La prima commissione del Csm indaga su questo e altro: e per Francesco Messineo, il capo della procura ritenuto troppo sdraiato su Ingroia, si ipotizza perciò un trasferimento che suonerebbe beffardamente come una nemesi rispetto ai pasticci combinati alla procura di Palermo in tutti questi anni. Veri eroi antimafia Impossibile non notare, infatti, che il processo sulla trattativa pare ormai sgonfiato e amorfo mentre la morale «politica» è che l’uomo delle famose intercettazioni fantasma, Giorgio Napolitano, è nientemeno che al Quirinale, mentre il suo grande accusatore,  Ingroia, è finito ad Aosta, anzi: è a spasso, questo dopo una clamorosa scoppola elettorale e in attesa di un’azione disciplinare per aver proseguito l’attività politica da magistrato. Impossibile non notare, pure, come le accuse rivolte via via dalla procura a veri eroi dell’antimafia (quelle a Sergio De Caprio, alias Capitano Ultimo, e al generale Mario Mori, imputati d’aver favorito la fuga di celebri latitanti) in definitiva sia svaporata nel nulla mentre l’unica incolpazione rimasta in piedi, ora, è quella mossa dal Csm a Messineo: aver fatto sfumare la cattura del latitante numero uno, Messina Denaro. E questo per un «difetto di coordinamento all’interno dell’ufficio della procura», parole testuali del pm Leonardo Agueci. Il fatto risale all’agosto scorso: i carabinieri del Ros dovettero interrompere la ricerca di Messina Denaro dopo un blitz della Polizia autorizzato da Messineo.  Ora il procuratore Capo dovrà fronteggiare accuse decisamente pesanti, benché - certo - la sua convocazione del 2 luglio al Csm «costituisce l’atto iniziale del procedimento, anche con finalità di garanzia». Si dice sempre così. Negli ultimi mesi la prima Commissione del Csm ha ascoltato numerosi magistrati della Procura di Palermo, dunque i fatti contestati sono tanti e circostanziati, alcuni rilevanti e altri meno. Dalle testimonianze emerge comunque un clima molto pesante  soprattutto in relazione alla solita inchiesta sulla presunta trattativa tra Stato e mafia, mentre tra i rilievi più rumorosi e al tempo stesso scontati c’è quello che riguarda rapporti privilegiati di Messineo col procuratore Ingroia che avrebbe sin troppo condizionato il procuratore capo nelle sue decisioni, soprattutto per quanto riguarda la discutibile (leggi: scandalosa) gestione del testimone Massimo Ciancimino. Nell’atto d’incolpazione, il che è più grave, si legge anche del «sospetto» che Messineo «avesse perso piena indipendenza» per via del fatto che Ingroia tenne con sé, per cinque mesi, alcune intercettazioni che riguardavano il procuratore capo; intercettazioni che, spedite con grande ritardo a Caltanissetta per competenza, sfociarono in un’indagine su Messineo archiviata solo ieri.  Caso limite Nel dettaglio: le intercettazioni risalgono al giugno 2012 e furono «conosciute dal dott. Ingroia presumibilmente sin da allora», scrive il Csm, tuttavia il medesimo le spedì a Caltanissetta solo nel novembre 2012 e cioè pochi giorni prima di lasciare l’ufficio per buttarsi in politica. Tempistica sospetta? L’autodifesa di Ingroia, ieri, denotava una discreta considerazione di se stesso: «La serenità di Messineo sarebbe stata condizionata non dalla mafia, ma dal pm antimafia che più a lungo, negli ultimi 20 anni, l’ha combattuta a Palermo». Cioè lui. Che non sarebbe lui, al solito, se non adombrasse anche possibili e inquietanti dietrologie dietro l’iniziativa del Csm: «Chissà se è un caso che questo avvenga adesso nei confronti del procuratore aggiunto, coordinatore del pool che ha indagato sulla trattativa Stato-mafia, e del procuratore Messineo che ha deciso di partecipare alle udienze del processo». No. Certo che non è un caso. O meglio: è il caso Ingroia-Messineo (e Procura di Palermo in generale, destinata quasi d’ufficio a non essere normale) ed è ciò che forse ha rappresentato un caso limite anche in seno alla magistratura: la classica goccia che ha fatto debordare un vaso che pure lo stesso Csm aveva acconsentito a riempire. Come se, ormai aliena ai moniti e ai condizionamenti della politica, la magistratura stesse infine facendo le pulizie di casa. Da sola. di Filippo Facci @FilippoFacci1

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