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Con la "flessicurezza" i senza lavoro hanno fatto boom

I limiti del modello danese emergono nelle situazioni di crisi mondiale: il mercato del lavoro va in tilt e non assorbe più
di Francesco Biscaro sabato 15 maggio 2010

3' di lettura

Danimarca, un modello. Danimarca, un esempio. Danimarca, un miracolo. Sono questi i termini che gli esperti in tema di lavoro hanno da sempre riservato al Paese del nord della Sirenetta. Monumenti di Copenaghen a parte, la Danimarca è infatti stata indicata come un luminoso faro, dopo che ha adottato il sistema della “flexicurity”, o flessicurezza all’italiana. Ma in cosa consiste, in pratica, questo sistema? Come spiega a Libero Emmanuele Massagli, ricercatore di Adapt, «i danesi descrivono il loro sistema ancorandolo a tre pilastri, chiamati dagli esperti “il triangolo d’oro”: flessibilità del mercato del lavoro, sistema di protezione sociale e politiche attive». Per flessibilità si intende la facilità di apertura e chiusura dei contratti, oltre a normative più “morbide” di altri paesi rispetto agli orari di lavoro. Ma è la protezione sociale, o sicurezza, l’aspetto che, se confrontato con quanto accade in Italia, fa più scalpore. «Se un cittadino danese perde il posto di lavoro », spiega infatti Massagli, «a fronte di tre anni di contributi gli viene riconosciuto un sussidio di disoccupazione pari all’90% del salario per 4 anni». Il massimale si attesta intorno ai 19mila euro annui, ma – è chiaro - il sistema è molto differente rispetto a quello italiano, dove «a fronte di due anni di anzianità assicurativa Inps e di un certo  numero di contributi versati si può accedere a un sussidio pari al 60% circa del salario per i primi 6 mesi, percentuale che va poi a scalare con il passare del tempo». C’è però il terzo pilastro, a sostenere il sistema danese. Ed è indispensabile per il suo funzionamento. Quello delle cosiddette politiche attive, ovvero «di tutte quelle politiche finalizzate al reinserimento del al lavoro». Un vero e proprio sistema di formazione permanente in grado di facilitare le transazioni da un impiego all’altro, migliorando l’occupabilità del singolo. Non tanto, quindi, sicurezza del posto di lavoro quanto sicurezza nel mercato, che dal Paese danese è stata acquisita grazie ad ammortizzatori social e percorsi formativi in grado di “traghettare” agevolmente il lavoratore da un impiego all’altro. In Italia qualcosa di simile è stato previsto dalla Regione Lombardia, con la dote lavoro e con la messa a punto di corsi di formazione e di aggiornamento per i lavoratori disoccupati o in cassa integrazione. «Ma il principio lombardo», spiega il ricercatore, «è stato quello della sussidiarietà, mentre in Danimarca vige una concezione statalista, a fronte di un sistema fiscale più elevato ma soprattutto più efficiente». Anche per questa differenza con l’Italia, Michele Tiraboschi qualche giorno fa, durante la presentazione del rapporto Adapt 2010, sottolineava l’impossibilità, oggi, di applicare tout court il modello danese. Le criticità da affrontare per l’introduzione in Italia di un sistema di flexicurity non sono soltanto quelle legate a una mancanza di risorse, quanto anche all’assenza di un robusto sistema di servizi al lavoro, di un sistema di monitoraggio del lavoro, o all’economia sommersa. «Soprattutto», aggiunge Massagli, «bisogna sottolineare come il modello italiano abbia tenuto più di altri paesi in tempo di crisi». Mentre in Danimarca, infatti, il tasso di disoccupazione è aumentato dal luglio 2008 al gennaio 2010 del 4,1% (fonte rapporto Adapt 2010), in Italia nello stesso periodo la differenza è di due punti percentuali. «L’Italia», continua il ricercatore, «ha un sistema diverso rispetto a quello nordico, che punta proteggere il reddito. Penso alla cassa integrazione: lo Stato si impegna ad aiutare l’azienda se essa preserva il posto di lavoro al dipendente. Ci possono poi essere abusi, ma il problema del nostro Paese è quello  dell’occupazione, non della disoccupazione». «La flexicurity», conclude Massagli, «è un ottimo esempio per quel che riguarda le politiche attive del lavoro, ma è solo una teoria se applicata al caso italiano. Il nostro Paese sta migliorando, in questo senso, soprattutto con i passi compiuti dal ministero in questi mesi. Ma molto ancora deve essere fatto, a proposito soprattutto di sostegno alla formazione, di contratti formativi, di attenzione alle capacità di riqualificazione del lavoratore».

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