Manuel Onorati lancia il suo “manifesto europeista”. Il giovane european project manager, fondatore del Cus Tor Vergata e docente nella seconda università capitolina, è intervenuto al convegno Opportunità europee e internazionali tenutosi in chiusura del Festival Mondiale delle arti performative Mundus. A margine dell’evento che è stato un momento di approfondimento e dibattito sui temi dell’Europa e della sua integrazione culturale, il professor Onorati ha parlato con Libero in una intervista.
Unione Europea e “cittadinanza attiva”. Ad oggi è più una realtà o solo un ottimo auspicio?
“La ‘cittadinanza attiva’ in Europa, oggi, rappresenta più un auspicio che una realtà pienamente realizzata. Il nostro impegno quotidiano nei progetti sociali e culturali ci dimostra che, sebbene esista una profonda volontà da parte dei cittadini di partecipare, vi è ancora un enorme lavoro da fare, in particolare da parte delle istituzioni pubbliche, per mettere il cittadino al centro del progetto europeo. L'obiettivo non è semplicemente coinvolgere, ma innescare una trasformazione che porti il cittadino da una condizione di passività a un ruolo di attore protagonista, che crede fermamente nel potenziale del proprio territorio e nell'efficacia delle proprie azioni. Purtroppo, assistiamo a un diffuso sentimento di delusione e di perdita di stimoli, specialmente tra i giovani, che faticano a esprimere un'idea, a volte persino a generarla. Questa è la vera sfida del futuro, e la politica, a ogni livello, inclusa l'Europa, non può e non deve ignorare questa urgenza. I progetti dal basso, come i nostri, nascono proprio per colmare questo vuoto, fornendo gli strumenti e gli spazi per un nuovo e concreto empowerment civico”.
Il vostro impegno europeista dal basso e a partire dall’impegno culturale può colmare il vulnus gravissimo e ancora non rimarginato legato alla mancanza di una Costituzione europea?
“Ritengo che la Costituzione europea non sia il punto di partenza, ma piuttosto l'esito finale di un percorso di coesione già avviato e maturo. Allo stato attuale, quel percorso non è per nulla pronto, e forse manca ancora una strada definita per raggiungerlo. Noi project manager del settore sociale e no-profit abbiamo un compito cruciale e di grande responsabilità in questo contesto: siamo chiamati a promuovere buone pratiche per mitigare rischi sociali crescenti. Poiché è evidente che la pubblica amministrazione non può farsi carico di tutto, è necessario che deleghi e sostenga in modo strutturale l'azione di promozione sociale e culturale. Tuttavia, spesso questa delega non trova un adeguato supporto nel percorso di crescita, venendo finanziata con "aiuti a pioggia" sporadici e poco incisivi. Al contrario, la programmazione europea ci insegna l'importanza di programmi strutturali a lungo termine, che sono l'unica via per costruire una base solida e condivisa, indispensabile prima di poter pensare a una costituzione comune. Il nostro impegno europeista dal basso rappresenta esattamente questo: un lavoro di tessitura sociale e culturale, che getta le fondamenta per un futuro in cui una costituzione possa essere l'espressione di un popolo veramente unito”.
La classe dirigente dell’UE rispecchia il vostro impegno oppure il vostro impegno presuppone e auspica un generale cambio di marcia dell’UE?
“È innegabile che, nella percezione comune, la classe dirigente politica europea appaia spesso distante dalle reali esigenze dei cittadini. Si fatica a percepire dei miglioramenti concreti e tangibili in ambiti fondamentali come, ad esempio, la sanità pubblica, che resta un banco di prova cruciale per il posizionamento del cittadino al centro dei servizi. Il nostro impegno, in questo senso, non è di mera opposizione, ma si pone come una forza propositiva e attiva. Lavoriamo su due fronti: da un lato, formiamo i cittadini e ne stimoliamo la partecipazione nei progetti che promuoviamo; dall'altro, ci adoperiamo per diffondere i risultati e l'impatto dei nostri progetti ai decisori politici. Questo è un modo per far comprendere concretamente di cosa ha bisogno il cittadino, fornendo evidenze e modelli di successo. Tuttavia, la responsabilità non è solo della politica. Anche la classe manageriale del Terzo Settore deve necessariamente compiere un "cambio di marcia", aumentando le proprie competenze per promuovere in modo più efficace e visibile le tantissime attività che già realizza sul territorio, ma che spesso rimangono "silenzioso all'interno del proprio tessuto sociale". Manca una vera e propria strutturazione nazionale, e in molti casi anche europea, per la condivisione e l'applicazione delle migliori pratiche. Le risposte non possono essere solo dei portali web che riepilogano progetti approvati”.
Voi parlate di cultura e dialogo ma l’Europa negli ultimi mesi ha parlato in realtà più di “riarmo”. Come si conciliano queste due cose?
“Parlare di riarmo, a mio avviso, significa aver già fallito. Non può essere un obiettivo concreto e prioritario che gli Stati singolarmente devono raggiungere, poiché ciò evidenzia non solo l'instabilità del sistema, ma soprattutto la debolezza dell'Europa che non riesce a esprimere una presenza unita e autorevole. Le azioni che spingono verso il riarmo rischiano di impostare un sistema basato sul potere "autoritario", anziché sull'"autorevolezza". L'Europa deve investire sulla sua autorevolezza, sul proprio posizionamento internazionale come forza di pace e di progresso sociale, non come entità militare. Deve lavorare per generare una politica sociale, imprenditoriale e dei diritti comunitari realmente unificata, affinché gli Stati membri non si percepiscano come satelliti di un sistema che viaggia a velocità diverse, ma come parte integrante di una comunità con valori e obiettivi condivisi. La cultura e il dialogo sono gli unici strumenti per costruire questa autorevolezza, perché creano legami, comprensione e fiducia, valori che nessuna forza militare può generare”.
La “periferia” si può immaginare in prospettiva come l’avamposto sociale di futuri “Stati uniti d’Europa”?
“La visione di molti politici sulla "periferia" come un semplice "non luogo" è profondamente errata. È proprio da questi luoghi che va potenziato ogni tipo di servizio e attività, perché è qui che risiede il potenziale di vitalità e di riscatto sociale più autentico. Parlo con cognizione di causa, venendo io stesso da un quartiere difficile come la Romanina, dove mi sono formato e ho capito l'esigenza di compiere azioni decisive nel sociale, nel culturale e per il benessere psicofisico. Ed è proprio nelle periferie che si può immaginare l'avamposto sociale di futuri "Stati Uniti d'Europa", perché una vera unione non può essere calata dall'alto, ma deve nascere dal basso, dal tessuto sociale delle comunità. Permettimi di essere molto drastico: per me i cittadini devono esprimere, attraverso un referendum europeo, cosa vogliono per il proprio futuro all’interno di un Europa unita. Non credo a nazioni che rimangono in bilico sul far parte del sistema o meno; una nazione fa parte o non fa parte, ed è ora di decidersi. Basta procrastinazioni di vario genere. È ora di prendere una decisione con piena consapevolezza, partendo proprio da una visione chiara e forte su ciò che le periferie possono e devono diventare”.