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Giustizia, la separazione delle carriere realizza il processo giusto

Giuseppe Gargani
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Dopo lunghissimo ripensamento e rapida decisione (venti ministri appena), il Consiglio dei ministri ha approvato una proposta che per la prima volta dal varo della Costituzione si pone il problema del ruolo del magistrato e del giudice. In tanti eravamo impazienti e abbiamo sollecitato in questi mesi il ministro Carlo Nordio a dare inizio alla riforma della magistratura e della giustizia perché consapevoli che solo lui avrebbe potuto determinare una svolta, non altri, non i governi di destra o di sinistra che da trenta anni si sono rifiutati di intervenire. Il ministro ricorda che da magistrato ragionavamo su questo tipo di intervento e gli diamo atto di avere affrontato «il ruolo del magistrato nel nuovo secolo» come nel 1999 intitolai un mio scritto in armonia con le considerazioni contenute nei libri dello stesso ministro.

Per queste ragioni vorrei fare giustizia di alcuni stupidaggini che sono state dette da persone anche avvedute che sfruttano argomenti da ... populisti. «La riforma non interessa i cittadini»; «la distinzione tra pm e giudici è necessaria perché essi sono amici, vivono la stessa vita degli uffici giudiziari e quindi è sospetta una loro alleanza»; «la riforma la si fa per punire i magistrati»; «il pm verrà sottoposto al governo e non sarà indipendente». Queste affermazioni possono avere un valore difensivo plausibile ma non fanno onore a chi le pronuncia, così come la frase ad effetto «la necessaria cultura della giurisdizione»!, sulla quale abbiamo scritto più volte. Il problema è molto più complesso ed è di sistema, per cui la espressione «divisione delle carriere», che ormai è in uso da oltre trenta anni, è espressiva ma non è indicativa delle problematiche sottostanti.

 

LE MOSSE DI VASSALLI
Nel 1998 Vassalli propose la riforma del codice di procedura penale e nel 1999 è stato introdotto, all’articolo 111 della Costituzione, la figura del giudice terzo. Con questa riforma si è individuato il “giusto processo” che ha segnato un salto di qualità, un diverso rilievo istituzionale e che presuppone una “separazione” tra chi accusa e chi giudica e una “separazione” dei relativi interessi. Fu fatta la riforma senza avere le forze e la chiarezza per difenderla. Una riforma che è diventata subito un formidabile boomerang.

Alla crisi della legislazione normativa di cui parliamo da vario tempo, nell’87 si è pensato di porre rimedio riorganizzando la struttura del processo. Non avendo la capacità di determinare un nuovo quadro normativo sostanziale, si è pensato di modificare la procedura. Si è imitato il rito accusatorio che è tipico dei sistemi della common law, dimenticandosi però che in quei sistemi, la separazione netta del magistrato requirente e di quello giudicante, è ferrea e regolamentata. Un processo accusatorio senza la distinzione e la parità delle parti, accusa e difesa, non può funzionare. La tanto discussa separazione delle carriere non è una finalità da raggiungere per scopi astratti, ma un presupposto indispensabile per un processo con rito accusatorio, perché è stata falcidiata dalla Corte Costituzionale e dalla prassi giudiziaria per cui il processo è un ibrido né accusatorio né istruttorio.

Il dottor Armando Spataro, da me ritenuto valente giurista ma accanito avversario di questa riforma, sostiene con sottili argomenti che «la parità delle parti è di natura endoprocessuale, garantita dalle regole del processo» e aggiunge «dalla pari preparazione processuale». Ed è questo il problema che ci ha assillato in questi anni, la «formazione professionale» e lo stesso Spataro aggiunge che «è opportuno prevedere non la separazione delle carriere ma fasi di approfondimento e aggiornamento, nel caso di riconversione professionale da giudice a pubblico ministero e viceversa».

 

LE PAROLE DI FALCONE
Quindi è necessaria una «diversificazione professionale» e Falcone si riferiva a questo e ha detto e scritto (e non lo si può citare faziosamente) che «tra molte esitazioni e preoccupazioni, comincia a farsi strada faticosamente la consapevolezza che la regolamentazione delle funzioni e della stessa carriera dei magistrati del pubblico ministero non può più essere identica a quella dei magistrati giudicanti, diverse essendo le funzioni e quindi, le attitudini, l’habitus mentale, le capacità professionali richieste per l’espletamento di compiti così diversi: investigatore a tutti gli effetti il pubblico ministero, arbitro della controversia il giudice. 

Su questa direttrice bisogna muoversi, accantonando lo spauracchio della dipendenza del pubblico ministero dall’esecutivo e della discrezionalità dell’azione penale, che viene puntualmente sbandierato tutte le volte in cui si parla di differenziazione delle carriere. Disconoscere la specificità delle funzioni requirenti rispetto a quelli giudicanti, nell’antistorico tentativo di continuare a considerare la magistratura unitariamente, equivale paradossalmente a garantire meno la stessa indipendenza e autonomia della magistratura, costituzionalmente garantita sia per gli organi requirenti che per gli organi giudicanti». Queste affermazioni non potrebbero essere più precise e si riferiscono a questioni istituzionali più complesse che riguardano il ruolo del magistrato e del giudice che non sono più un “ordine”, come recita l’articolo 104 della Costituzione, ma sono un “potere”.

La magistratura per tanti anni è stata interprete fedele della legge e ha costituito un “potere neutro”. L’equilibrio dei poteri si è attuato in questo modo e la magistratura è stata un “ordine” “indipendentemente dagli altri poteri”, ma non un “potere”. Intorno agli anni ’80 la magistratura ha avuto un’evoluzione: la giurisprudenza si è imposta come riferimento principale, come faro per i giudici, la certezza della legge si è attenuata, le norme incerte incapaci di regolare i rapporti sociali hanno consentito che il legislatore delegasse tutte le interpretazioni e le decisioni al magistrato, e l’“ordine” ha lasciato il posto al “potere”. Si trattava forse di un’evoluzione inevitabile.

La magistratura pigliava atto che ad essa era stata devoluta dalla legislazione una serie di compiti che non erano suoi propri e che investivano la funzione politica più che quella giurisdizionale e di conseguenza il suo controllo giurisdizionale si trasformava in un controllo politico e incideva sulla vita politica dello Stato. In questo contesto il riconoscimento di un ruolo adeguato dell’ordine giudiziario è strumento essenziale per realizzare l’equilibrio tra i poteri.

LA RICERCA DELL’EQUILIBRIO
Un sistema democratico è tanto più efficiente quanto più l’equilibrio dei poteri è assicurato non solo dal sistema di checks and balances, ma anche dall’esercizio responsabile da parte di ciascun potere. In altri termini, ciascun potere deve ispirare la propria azione anche ad una logica di self restraint, ovvero ad un modo di essere istituzionale, conforme al criterio, non scritto ma implicito nel sistema, di trasparenza e riserbo.

Questo criterio ha presieduto l’evoluzione democratica del nostro Paese in tutto il secondo dopoguerra ed è condizione perché la crescita dello Stato democratico prosegua. Occorre evitare ogni confusione di ruoli e consolidare quell’atteggiamento di reciproca collaborazione democratica e tolleranza che tutti hanno mostrato nei momenti più difficili della vita del Paese.
Queste le considerazioni istituzionali per affermare che la proposta del ministro di Giustizia risponde (meglio: comincia a rispondere) alla domanda impellente: come disciplinare una responsabilità istituzionale del giudice e del magistrato senza intaccare la necessaria assoluta indipendenza. La proposta del governo risponde a questa logica e a stabilire il ruolo nuovo e moderno che il p.m. e il giudice debbono avere in una società complessa come la nostra che non è più quella del ’48.

L’alta Corte di Giustizia, estranea al Consiglio Superiore, risponde a questa logica ed è un istituto che rafforza il ruolo del Consiglio superiore della magistratura per le sue funzioni proprie. Queste valutazioni ci portano a dire che la riforma è coerente con la Costituzione nei suoi principi fondamentali ed è a maggiore garanzia dei cittadini perché aiuta a realizzare il giusto processo. Per ultimo l’invito al ministro di Giustizia a intitolare il disegno di legge non “la separazione delle carriere” ma “disciplina del ruolo diverso del magistrato e del giudice”. Sul sorteggio per i componenti del Csm comunque espletato, le più ampie riserve che spiegherò in un successivo articolo: non è adeguato ad un organo costituzionale e rafforza a più basso livello le “correnti”!

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