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Almasri, tutti i buchi nelle accuse alla fedelissima di Nordio

di Elisa Calessi venerdì 8 agosto 2025

3' di lettura

«Come la presidente Meloni ha ritenuto surreale che i suoi ministri abbiano agito senza il suo consenso, così anch’io ritengo puerile ipotizzare che il mio capo di gabinetto abbia agito in autonomia. Ribadisco che tutte, assolutamente tutte le sue azioni sono state esecutive dei miei ordini, di cui ovviamente mi assumo la responsabilità politica e giuridica». Così il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ha fugato ogni dubbio riguardo al presunto ruolo del suo capo di gabinetto, Giusi Bartolozzi. A proposito di quest’ultima, il Tribunale dei Ministri doveva chiedere l’autorizzazione a procedere anche per lei. Diversamente, se la sua posizione dovesse essere stralciata e subire un procedimento della giustizia ordinaria, gli effetti potrebbero essere due: Bartolozzi potrebbe fare ricorso contro un eventuale procedimento nei suoi confronti.

Oppure il Parlamento, la Camera dei deputati o il Senato, potrebbero sollevare un conflitto di attribuzione davanti alla Corte costituzionale, per il fatto che non gli è stata riconosciuta una prerogativa. A spiegarlo a Libero è Salvatore Curreri, professore di Diritto costituzionale all’Università di Enna Kore. «Ci sono due leggi», spiega, «che sono il riferimento di questo caso e che il Tribunale dei Ministri pare aver ignorato. La prima è una legge costituzionale, la numero 1 del 1989, che modifica l’articolo 96 della Costituzione, disciplinando la responsabilità penale dei ministri e del Presidente del Consiglio». In particolare, stabilisce che per i reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni, la pena può essere aumentata fino a un terzo. La legge prevede, poi, che l’autorizzazione a procedere nei loro confronti, richiesta dalla Camera di appartenenza, sia valutata da un collegio di magistrati appositamente istituito presso il tribunale del capoluogo del distretto di Corte d’appello competente per territorio.

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Ma il punto che ci interessa è il comma 3 dell’articolo 9: si prevede che, nel momento in cui il Tribunale dei Ministri invia gli atti riguardanti ipotesi di reato commessi da ministri o eletti nell’esercizio delle loro funzioni, «l’assemblea si riunisce entro sessanta giorni dalla data in cui gli atti sono pervenuti al Presidente della Camera competente e può, a maggioranza assoluta dei suoi componenti, negare l’autorizzazione a procedere ove reputi, con valutazione insindacabile, che l’inquisito abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di governo». Questa legge è stata, poi, declinata da un’altra legge, questa volta ordinaria, la 219 del 5 giugno 1989. E qui arriviamo al cuore della tesi sostenuta da Curreri (ma non solo da lui).

All’articolo 4, comma 2, si legge che «se il procedimento è relativo ad un reato commesso da più soggetti in concorso tra loro, l’assemblea indica a quale concorrente, anche se non ministro né parlamentare, non si riferisce il diniego, per l’assenza dei presupposti di cui al comma 3 dell’articolo 9 della legge costituzionale 16 gennaio 1989, n. 1». Tradotto: l’autorizzazione a procedere, obbligatoria per parlamentari e ministri, viene estesa anche a chi non è «né ministro, né parlamentare». Come spiega Curreri, «quando la Camera è chiamata a valutare complessivamente la responsabilità di soggetti terzi, anche non parlamentari, nel caso in cui dovesse negare l’autorizzazione a procedere, può dire per quali non vale questo diniego. In sostanza la Camera può distinguere quelli per i quali concedere l’autorizzazione e quelli per i quali non concederla». Ma nel momento in cui si stabilisce questa prerogativa, si dà anche per assodato che la competenza del Parlamento riguarda anche i non parlamentari.

Per dirla in breve: queste due leggi dimostrano, spiega Curreri, che «quando si tratta di soggetti coinvolti nella stessa fattispecie di reato, anche se non fanno parte della compagine di governo, l’autorità giudiziaria, quindi il Tribunale dei ministri, deve chiedere l’autorizzazione a procedere». E ci sono dei precedenti. Accadde con Gianni Alemanno, che venne indagato per finanziamento illecito dei partiti insieme a Calisto Tanzi, patron di Parmalat, che non era parlamentare. Su entrambi la Camera si pronunciò. Spiega Curreri: «La Procura deve chiarire se c’è un’ipotesi di reato a carico della Bartalozzi e se è legata alla vicenda Almasri. In questo caso ci sarebbe una connessione con la responsabilità penale che si ipotizza a carico di Nordio, e quindi la sua posizione sarebbe attratta in quella di Nordio. Se fosse così, e le dichiarazioni del ministro vanno in questo senso, Bartolozzi avrebbe commesso reato in connessione con quanto commesso da Nordio, quindi va chiesta l’autorizzazione a procedere».

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