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Petrelli: "I magistrati non temano le nuove leggi e si liberino dalle correnti"

di Pietro Senaldivenerdì 7 novembre 2025
Petrelli: "I magistrati non temano le nuove leggi e si liberino dalle correnti"

4' di lettura

«Questa riforma non è certo punitiva delle toghe. Le libera dal condizionamento delle correnti e conferisce legittimazione e autorevolezza alla figura del giudice, confermandone l’indipendenza dal potere politico». Presidente, l’Associazione Nazionale Magistrati non condivide: si è schierata contro in vista del referendum popolare di approvazione. Sbagliano? «Credo che l’Anm si sia schierata contro perché la riforma prevede il sorteggio dei componenti del Consiglio Superiore della Magistratura, sottraendolo al gioco delle correnti: un gioco politico, che poco ha a che fare con un organo di garanzia ma che finisce per alterarne del tutto le funzioni previste dalla Costituzione».

Mi dica perché un magistrato dovrebbe essere a favore della riforma...
«Perché la norma libera i singoli magistrati dalle correnti, che oggi ne determinano la carriera. L’indipendenza interna dei componenti della categoria rispetto al potere interno alle toghe è importante almeno quanto quella esterna dal potere politico». Gli avvocati sono schierati tutti con la riforma che prevede la separazione delle carriere tra pubblici ministeri e giudici, chi indaga e chi decide, con relativo sdoppiamento del Csm, l’organo disciplinare dei magistrati, che ne decide anche il percorso professionale. Si è costituito addirittura un Comitato per il Sì. «È una sciocchezza sostenere che la divisione delle carriere sottopone le Procure al potere del governo», incalza il presidente delle Camere Penali, Francesco Petrelli. «Anzi, l’analisi della realtà dimostra che i regimi autoritari che mirano a sottomettere il potere giudiziario tendono a tenere unite la magistratura inquirente e quella giudicante, in modo da poterle controllare meglio. E poi guardi alla Francia, dove i pm sono sotto l’esecutivo eppure è finito in carcere addirittura un ex presidente, Nicholas Sarkozy». D’altronde, fa notare Petrelli, «l’unità della magistratura in Italia è un retaggio dell’ordinamento scritto da Dino Grandi nel 1941 e del codice penale inquisitorio varato durante il fascismo e funzionale a un regime autoritario».

Qualche magistrato ha parlato di una riforma che entrerebbe in contrasto con la Costituzione. Un’esagerazione?
«La Costituzione prevede la possibilità di essere riformata per restare aggiornata con i tempi che cambiano. In realtà questa nuova normativa non è altro che la seconda parte della grande riforma del processo penale realizzata nel 1988 da Giandomenico Pisapia».

Mi sta dicendo che noi oggi applichiamo una struttura della magistratura statalista e inquisitoria al modello accusatorio e più rispettoso di entrambe le parti del processo disegnato dalla riforma di Giuliano Vassalli, ministro della Giustizia nel 1988?
«Esattamente. Il nostro processo in teoria mette pm e difesa sullo stesso piano, davanti a un giudice non solo imparziale ma anche terzo. Tuttavia oggi non è così: non abbiamo mai provveduto, dal 1988 a ora, ad adeguare l’organizzazione della magistratura al nuovo modello processuale».

Oggi invece sono pm e giudice a essere sullo stesso piano?
«Giudice e pubblico ministero sono collocati all’interno di un’unica organizzazione e pertanto vivono una condizione promiscua, condividono la medesima casa. È inevitabile che un sistema dove controllore e controllato sono gestiti da un unico soggetto, il Csm, dal punto di vista disciplinare e degli avanzamenti di carriera, finisca per produrre distorsioni. In qualunque altra organizzazione di un Paese civile questa cosa non sarebbe sopportata».

Quali sono le distorsioni che si realizzano oggi?
«La valutazione delle professionalità ai fini della carriera è approssimativa, quasi meccanica. Tant’è che nel 99% dei casi essa si risolve con una promozione con il massimo dei voti. Ma non è solo questo. Il problema più grave è che le richieste delle procure volte a ottenere proroghe alla durata delle indagini, autorizzazione a intercettare qualcuno o emissione di un provvedimento cautelare, vengono accontentate inevitabilmente nella stragrande maggioranza dei casi?».

Perché accade questo?
«Perché il giudice rinuncia al proprio ruolo di controllore e argine del potere inquisitorio e finisce con l’assumere la medesima cultura delle Procure. Tant’è che poi, se per caso un giudice assolve un imputato eccellente grida allo scandalo».

La sensazione è che l’Anm stia conducendo la battaglia per il No al referendum buttandola sulla politica, come fosse un no al governo e a Giorgia Meloni. Condivide?
«Quello che è evidente è che l’Anm si è impegnata in una propaganda referendaria che, mirando a promuovere un certo voto da parte dei cittadini, va oltre il contenuto tecnico necessario ai fini dell’elaborazione delle norme o della discussione in ordine a una riforma che riguarda la giustizia».

Però è una strategia che può essere vincente...
«È un investimento pericoloso perché, comunque vadano le cose e chiunque dovesse vincere il referendum, la magistratura vedrà la propria immagine di imparzialità e sobrietà in qualche modo incrinata davanti al cittadino, con il rischio di minare autorevolezza e legittimazione della funzione. Il magistrato deve non solo essere imparziale, ma anche apparire tale. Quando si fanno certe battaglie bisogna pensare anche al giorno dopo”.

Ma dal punto di vista tecnico, quali sono davvero i vantaggi della riforma?
«L’articolo 111 della Costituzione afferma che il giudice, oltre a imparziale rispetto all’oggetto del processo, dev’essere terzo; questo significa che dev’essere distinto dall’accusa anche sotto un profilo ordinamentale. L’arbitro non può frequentare panchina e spogliatoi di una delle due squadre in campo. È una questione non solo di equilibrio e trasparenza ma anche di efficienza del processo e autorevolezza delle decisioni del giudice».