Ma quale negazionista

Coronavirus, l'infettivologo Matteo Bassetti: "Noi negazionisti? Sono loro a fare terrorismo"

Gianluca Veneziani

Gli hanno dato del «negazionista», anche se è stato uno di quelli che ha trattato prima e meglio il Covid-19, sperimentando nuovi farmaci, assistendo 1.500 pazienti e coordinando un team di ricerca che ha prodotto venti articoli sul tema in soli tre mesi. Ma in un Paese succube dell'ideologia nessuno ti riconosce i meriti: e così il prof. Matteo Bassetti, direttore della clinica di Malattie Infettive dell'Ospedale San Martino di Genova, si è ritrovato attaccato dai media benpensanti, insieme ad altri colleghi, come i prof. Zangrillo, Remuzzi e Clementi, per aver preso parte a un convegno in Senato che osava mettere in discussione le certezze del governo sull'attuale pericolosità del virus.

 

 

Prof. Bassetti, ogni giorno in Italia ci sono una decina di decessi per Covid e in terapia intensiva sono ricoverate una quarantina di persone, l'1% rispetto a marzo. Non ha più senso parlare di emergenza?
«L'emergenza sanitaria-ospedaliera non c'è più: al momento in tutta Italia ci sono gli stessi ricoverati gravi che potrebbero essere ospitati in un solo reparto di terapia intensiva. E dei nuovi contagiati quasi nessuno finisce in rianimazione. Ricordare questi dati vuol dire essere aderenti ai fatti, ma anche dare un messaggio positivo, trasmettere ottimismo».

Perché poche persone vengono contagiate e, di queste, pochissime in forma grave?
«Non c'è un'unica ragione. Innanzitutto il virus circola molto meno: a marzo il 35% dei tamponi dava esito positivo, oggi solo lo 0,55%. Inoltre il virus ha perso carica virale. Se prima il numero di particelle infettive di virus era di 100, adesso è di 10 o anche meno e quindi ci si difende più facilmente. In più, ora sappiamo trattare meglio questa malattia, intercettando i contagiati rapidamente e sottoponendoli alle giuste terapie. Da ultimo, è maturata una capacità dell'ospite di adattarsi al virus. Insomma, abbiamo imparato a conviverci».

Perché ricordare tutto ciò le è valsa l'accusa di essere un negazionista?
«Innanzitutto trovo insopportabile questo termine, che di solito viene attribuito a chi nega la Shoah o la strage degli armeni, e lo respingo al mittente. Io sono stato in prima fila in ospedale durante l'emergenza: non pretendo che mi dicano grazie, ma almeno che non mi insultino. E ribadisco: il mio è un ottimismo basato su dati. Piuttosto considero masochista e da matti l'atteggiamento di chi continua a fare terrorismo psicologico. Penso a un importante quotidiano italiano che dedica una dozzina di pagine al coronavirus alimentando allarmismo. Nessun altro giornale in Europa lo fa. Diamo così all'estero un'immagine dell'Italia che non corrisponde al vero, dato che siamo uno dei Paesi europei messi meglio».

Conte definisce «negazionista» Salvini sulle mascherine, mentre i giornaloni bollano come «negazionisti» i cittadini che scendono in piazza a Berlino per dissentire da alcune misure anti-contagio. Dare del negazionista è la nuova manifestazione del Pensiero Unico?
«Non lo so. Di sicuro finora in Italia ho goduto di libertà di ricerca e di opinione. Nel momento in cui ciò non fosse più possibile, farei subito le valigie e andrei all'estero. Fortunatamente ho molto mercato oltreconfine».

Attacchi pesanti sono arrivati da colleghi scienziati. Penso a Massimo Galli che, a proposito del convegno, ha parlato di «messaggi pericolosi» pronunciati da chi «non aveva titolo».
«Stimo troppo il prof. Galli per pensare che fosse a conoscenza della mia presenza a quel convegno. Credo che le sue frasi fossero riferite ai politici. In generale mi preoccupa una Scienza concepita sul modello Cina o Corea del Nord, in cui non c'è spazio per la pluralità delle idee. La medicina è una scienza inesatta che si regge su ipotesi diverse, non su un pensiero imposto. E poi mi sorprende che le critiche arrivino da presunti esperti che in realtà esperti non sono e si sono autobattezzati tali. Basti vedere i loro curricula: gente che finora si era occupata di zanzare, che in rianimazione non è mai entrata e che magari ha una produzione scientifica scarsissima. I loro giudizi riflettono lo scollamento di chi sta al centro rispetto ai territori dove si è combattuto il virus».

Cosa intende?
«Voglio dire che, se abbiamo gestito bene l'epidemia, non è per merito dello Stato centrale. Il governo non ha fatto niente. Chi si è preso carico dell'emergenza sono le regioni, nella fattispecie quelle del Nord, che hanno assunto medici, assistito la gente a casa, fatto i tamponi e distribuito le mascherine».

Il governo ha cambiato linea sul distanziamento nei treni: resta l'obbligo di non riempire al 100% i posti a sedere. Decisione sbagliata?
«Mi sembra sia il frutto di una totale confusione. Se prendo un aereo posso stare a fianco degli altri passeggeri, se prendo un treno invece no. Qual è la logica?».

La retromarcia è stata dettata dal Comitato Tecnico Scientifico e dal consigliere di Speranza, Walter Ricciardi. La politica è stata commissariata dagli scienziati?
«Alcune decisioni dovrebbero essere affidate alla politica: ad esempio la scelta se riaprire le scuole o come far muovere le persone nei mezzi pubblici. Non si può lasciare un Paese in ostaggio dei tecnici. E invece la politica latita. Penso all'incapacità di monitorare i viaggiatori che arrivano dall'estero: al confine coi Balcani non ci sono controlli e sugli aerei non si fanno neppure compilare dei moduli per sapere da che Paese arrivi».

Come commenta la scelta di Luigi Lopalco, epidemiologo coordinatore dell'emergenza in Puglia, di candidarsi col Pd?
«Non c'è niente di male che un medico faccia politica. L'importante è che non ci siano due pesi e due misure. Se Lopalco scende in campo col Pd, tutti a dire "che bravo", se invece un Zangrillo dovesse candidarsi con la destra, scommetto che tutti direbbero "sovranista, fascista!"».

Mi dica la verità: il contagio potrebbe tornare con la stessa forza in autunno o il peggio è passato?
«Quello che abbiamo visto a marzo non si potrà più ripetere: ora siamo in grado di enucleare i focolai e tracciare e trattare i pazienti. Ciò che temo in autunno è l'effetto panico: al primo starnuto c'è il rischio che la gente impazzisca e si riversi in ospedale, non riuscendo a distinguere un'influenza stagionale dal Covid. Servirebbero perciò messaggi chiari su come comportarsi in caso di sintomi influenzali e soprattutto una comunicazione meno allarmistica».