Un omicidio efferato e cruento, quello di Alessandro Venier, fatto fuori e sezionato in tre pezzi dalla madre e dalla compagna. Che poi lo hanno sepolto nella calce, in un grande bidone all’interno del garage, per evitare che l’odore della morte insospettisse i vicini. Dopo cinque giorni, per fortuna, le due donne hanno confessato al 112 e hanno atteso l’arrivo dei Carabinieri che le hanno tradotte in carcere. Perché un gesto così estremo e crudele, perché nei confronti di un familiare, di un compagno, peggio ancora di un figlio?
"Sono stata io e so che ciò ho fatto è mostruoso": è quanto ha ammesso, di fronte al magistrato che la stava interrogando, Lorena Venier, la donna di 61 anni, di Gemona (Udine), che ha confermato di aver ucciso e fatto a pezzi il figlio. "La mia assistita ha reso piena confessione di fronte al sostituto procuratore che l'ha interrogata - ha confermato, all'ANSA, l'avvocato Giovanni De Nardo, che patrocina la sua difesa - Come si può immaginare, era visibilmente scossa per la crudeltà della sua azione e per la contrarietà a qualsiasi regola naturale del suo gesto". La donna ha agito assieme alla convivente del figlio.
L’uomo aveva 35 anni ed era disoccupato, viveva a Gemona, in provincia di Udine, con la compagna Marylin Castro Monsalvo e la figlia di sei mesi. Mantenuto dalla mamma Lorena, di 62 anni. Lei infermiera caposala all’ospedale, dove teneva corsi per Oss frequentati anche dalla nuora, una cittadina colombiana di 30 anni, prima di rimanere incinta. Negli ultimi tempi pare fosse diventato molesto e aggressivo, complice anche l’abuso di alcolici. In particolare, le donne gli contestavano il fatto che non lavorasse.
Il movente scatenante è scaturito nel giorno in cui Venier aveva detto alle donne che si sarebbe occupato di preparare la cena e la tavola, ma le donne al loro rientro, dopo una giornata di lavoro non hanno trovato niente di preparato. Ne è nata una discussione, pare con schiaffi e spintoni. E da lì, per quel che emerge dal primo interrogatorio della madre, sembra che le due abbiano somministrato alla vittima dei farmaci, di cui disponevano per la depressione post-partum della compagna di Venier. La dose eccessiva potrebbe averlo portato alla morte, oppure semplicemente ad uno stordimento che, vista la corporatura robusta, gli avrebbe impedito di reagire ai fendenti mortali con un’ascia o un’accetta, usate anche per sezionare il cadavere. Solo l’autopsia e l’esame tossicologico chiarirà la reale dinamica. Le due donne sono ora in carcere e la piccola di sei mesi, invece, è stata affidata ai servizi sociali.