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Le opere d'arte non hanno bisogno di un nome

L'esigenza di dare un titolo ai quadri è nata nel XVIII secolo, ma già nel '900 viene criticata. Un saggio spiega le ragioni
di Pietrangelo Buttafuoco mercoledì 27 agosto 2025

4' di lettura

Eroe anonimo, furbescamente senza nome è Ulisse: «Il mio nome è Nessuno». E' così che il Marinaio cantato da Omero si presenta al ciclope Polifemo dopo averlo fatto cieco ed essergli scappato.
Nomina sunt consequentia rerum e, allo stesso modo - nel far conseguire innanzitutto l’opera gli artisti contemporanei rifiutano di dare un nome a ciò che creano affinché lo spettatore o fruitore che dir si voglia non ne venga influenzato. Questo non è un Ulisse, potrebbe dirsi dunque in anticipo sulla «non è una pipa» di Magritte e Sulla necessità del Senza titolo, il silenzio come linguaggio dell’arte scrive Chiara Ianeselli, storica dell’arte, offrendo alla pubblica discussione, un piccolo testo edito da Postmediabooks, (16,00 euro). Con sapiente cura e talvolta anche con divertita malizia, Ianeselli guida il lettore sulle tracce delle più recenti correnti artistiche dall’Espressionismo astratto al Minimalismo, all’Arte Povera - i cui esponenti hanno fatto del Senza titolo un manifesto esistenziale. A che titolo, dunque, l’opera? Il libro di Ianeselli è composto da quattro capitoli: «Rapporto del titolo con l’opera d’arte»; «Il titolo senza titolo nell’Espressionismo astratto» – e questa espressione indica la precisa volontà dell’artista di non voler dare un titolo alle sue opere – quindi «Pratiche riduzioniste nel Minimalismo» e, infine, «Il Titolo Senza titolo nell’arte povera».

L’essenza dell’opera d’arte è nel darsi d’arte dell’opera: l’essere brocca della brocca spiega Martin Heidegger e non certo nella didascalia. $ interessante ricordare, e lo spiega bene l’autrice, che battezzare con un titolo l’opera d’arte è una pratica introdotta nella storia dell’arte occidentale a partire dal XVIII secolo. Il motivo è da attribuire al fatto che molte opere d’arte erano il frutto di precise committenze. Quasi sempre religiose e molto dettagliate. L’attestano i documenti che le accompagnano e delimitano il campo d’azione dell’artista, anche dal punto di vista della definizione della scena, l’individuazione delle figure, i costi e i materiali necessari alla loro realizzazione, che rendevano l’oggetto del quadro immediatamente riconoscibile.

Sono soggetti derivanti da fonti religiose o mitologiche. In altri casi, quando la committenza è privata, il titolo è incorporato nell’opera, anche con sottili espedienti. Ianiselli fa l’esempio di un titolo criptato in forma di rebus, nel caso della Lucina Brembati, 1518, di Lorenzo Lotto. Le opere cominciano ad essere titolate con il declino del mecenatismo religioso, l’ascesa del mercato dell’arte, la nascita di case d’asta – Sotheby’s nel 1774 e Christie’s nel 1766, per cui diviene necessario apporre un titolo all’opera per esigenze amministrative e di pubblicizzazione dell’opera.

UNA STORIA ECCENTRICA

Con la nascita dei musei pubblici e la crescita del giornalismo fonte prima di chiacchiericcio nella società della conversazione questa pratica diviene indispensabile. Inizia così una storia del titolo dell’opera d’arte spesso eccentrica. Si va dal titolo descrittivo del soggetto artistico, a quello evocativo del Surrealismo, a quello in cui contraddice il tema dell’opera come nella Trahison des images di Magritte del 1929. In altri casi il titolo viene attribuito dal mercante d’arte, pratica effettuata per le opere di Picasso e dallo stesso artista fatta oggetto di critica, «la mania dei mercanti di battezzare i quadri».

La questione del titolo nel Novecento diviene oggetto di discussione, via via che l’opera d’arte diviene sempre più geometrica e distante dalla rappresentazione del soggetto umano. Gli artisti credono sempre più che un titolo imprigionerebbe il quadro e condizionerebbe lo spettatore indirizzandolo verso un’interpretazione unica. Così Clyfford Still: «Le persone dovrebbero guardare l’opera in sé e determinarne il significato per loro». $ anche un rimprovero e una presa di distanza dai critici d’arte che pretendono di fare della loro interpretazione un codice indiscutibile. E ancora Still a commentare: «Non mi interessano le allusioni letterarie nella pittura. Sono solo stampelle per illustratori e politici alla disperata ricerca di un pubblico. I titoli sono dispositivi autoritari per il controllo sociale». Nei due capitoli finali l’autrice indaga sul percorso di artisti quali il già citato Still, ma anche Mark Rothko, la cui produzione presenta una traiettoria non lineare, per cui in alcuni casi il titolo è sostituito dalla numerazione, ma vi sono anche opere dotate di titoli «altamente suggestivi e metaforici», in altri casi alcune opere esposte senza titolo, lo hanno acquisito in una fase successiva.

LA SCELTA DI POLLOCK

Jackson Pollock così si esprime circa la sua scelta, a partire dl 1948, di introdurre i numeri per intitolare le sue opere: «I numeri sono neutri. Fanno sì che le persone guardino un quadro per quello che è: pura pittura. Ho deciso di non aggiungere altro. La pittura astratta ti mette di fronte a te stesso, una sorta di spazio non incorniciato». Quanto più l’opera d’arte raffigura oggetti di uso comune- travi, scatole, cubi – tanto più si distacca dal linguaggio didascalico, invitando lo spettatore a confrontarsi direttamente con la percezione visiva dell’opera, per cui la reazione dipende dalla condizione personale di chi guarda. Dunque l’arte contemporanea, nelle parole-manifesto di Germano Celant «non vuole offrire una lettura del mondo, non si pone in una chiave moralistica, non accetta di essere addomesticata secondo una visione univoca e insensata, rifiuta le incrostazioni interpretative». A che titolo, infine, l’opera? Come l’eroe Omerico, il nome dell’opera d’arte diviene Nessuno – dunque atto puro – e come la “brocca” di Martin Heidegger, «l’esser brocca della brocca» è «l’offerta del versare», il saldare cielo e terra dell’opera d’arte.

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