I gruppi e i siti sessisti denunciati nelle ultime ore con crescente indignazione hanno resuscitato il concetto-rifugio di patriarcato. Stavolta si parla di patriarcato digitale. Ma questo è solo un aspetto del problema (maschi cioè che esprimono la loro sete di dominio scambiandosi foto e commenti volgari). L’altro aspetto, forse più sconcertante, è quella che non a caso è stata chiamata cultura dello stupro: i corpi a disposizione delle mogli, e delle donne in generale, sono oggetto di sopraffazione scambiata per gioco da männerbund degradato. La cultura dello stupro è proprio questo in effetti: abuso di un corpo (femminile ma non solo, anche di un corpo infantile, odi un corpo fragile e indifeso o malato o maschile) senza tenere conto del consenso. Bisogna tenersi bene in equilibrio tra due opposte generalizzazioni: i maschi sono tutti potenziali stupratori oppure gli stupratori sono una minoranza deviata della categoria. Sono entrambi concetti riduttivi. L’alto numero di frequentatori dei siti citati dimostra che certe pratiche – scaturenti da quella che un filosofo tradizionalista come Julius Evola definiva la «moderna pandemia del sesso» o «lussuria cerebralizzata» – sono diffuse e persino «normalizzate». Rimandano a un immaginario deviato secondo cui i corpi femminili sono generatori di tentazioni che vanno esaudite. I corpi delle mogli, poi, sono ancora più a rischio.
Nel 1973 fece discutere il caso del sottufficiale della Royal Air Force che convinse tre suoi colleghi a perpetrare uno stupro di gruppo contro la moglie Daphne in quanto «pervertita». I tre si difesero sostenendo che non avevano l’intenzione di commettere un atto illecito e che ritenevano una finzione le urla strazianti di Daphne. Se però consideriamo tutti gli uomini come potenziali stupratori commettiamo l’errore di condannare tutte le donne ad essere potenziali vittime, soggiogate dalla paura, costrette a fare i conti con la dimensione psicologica del terrore della violenza carnale. E dunque come catalogare le sconcezze digitali ai danni delle donne? Ci soccorre la storica Joanna Bourke (Stupro, storia della violenza sessuale, Laterza): gli stupratori e più in generale i maschi che commettono abusi «non sono le truppe d’assalto del patriarcato, ma la sua progenie inadeguata».
I loro comportamenti, i loro reati, le loro devianze mettono infatti in discussione la categoria degli uomini e la loro onorabilità. Minano in profondità l’immagine dell’uomo che protegge, tutela, si prende cura della donna e la rispetta. In definitiva gli «uomini sessualmente aggressivi», specifica Joanna Bourke, indeboliscono il patriarcato e non lo rafforzano. Tra l’altro la sociologia ha ampiamente dimostrato che chi fa abuso di pornografia, chi ha un atteggiamento di prevaricazione per dimostrarsi eroticamente vincente ha un grado di soddisfazione sessuale inferiore ai maschi non aggressivi. In pratica più si accomuna ai genitali la virilità più ci si avvicina alla frustrazione sessuale. Tali furono i risultati della ricerca del sociologo Eugene Kanin su un campione di 400 universitari maschi del Midwest. La complessità del problema non esime la società dal riflettere su possibili soluzioni non solo a tutela delle donne (doverosa) ma anche a difesa delle relazioni interpersonali in un contesto di civiltà. Da decenni la cultura occidentale non impone più una concezione violenta e aggressiva della virilità. E allora che fare? Intanto rappresentare la storia delle relazioni tra i sessi come una storia di dominio patriarcale degli uomini sulle donne fa credere ai primi che siano stati in qualche modo spodestati, inducendoli a comportamenti ostili verso le donne. Quanto, infine, all’educazione all’affettività da molti invocata come rimedio alla violenza contro le donne essa potrà essere efficace soltanto se finalizzata a restituire senso e valore alla persona, non una «cosa» di cui disporre a proprio piacimento, ma un essere necessario alla vita degli uomini in quanto «animali sociali».