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Il Nordest parla "Bangla": se i commercianti imparano il bengalese

La zona di Mestre è ad altissima concentrazione di stranieri, i negozi si adeguano. Commenti perplessi sui social: "Dovrebbe essere il contrario"
di Lorenzo Cafarchio mercoledì 10 settembre 2025

3' di lettura

Immaginate di essere nel profondo Veneto. Quello che sconfina nell’Adriatico. Ecco, da qui arriva una notizia alquanto, diciamolo pure, curiosa. A Mestre, la terraferma di Venezia, i commerciati stanno imparando il bengladese per dialogare coi clienti. A lanciare la questione è stato il quotidiano la Nuova di Venezia e Mestre. Un numero sempre crescente di attività commerciali «cercano di andare incontro alle esigenze del mercato» - nel senso che la presenza di stranieri, in certe zone della città, è ormai predominante. Tra questi anche il gelataio Mattia Doria, che dice addirittura di conoscere i dialetti del Bangladesh e afferma che i banglalesi vanno pazzi per «pistacchio, mango e cocco». Quindi vai di cartelli, scritte, annunci e «dépliant dei centri estivi» tradotti in bengalino. Un vero fenomeno culturale. Infatti a inizio anno il programma di Rete4 “Zona Bianca” si era occupato di un corso di bengalese a scuola, sempre a Mestre, più precisamente all’istituto Giulio Cesare, che fuori dall’orario scolastico offriva la possibilità a tutti gli studenti di imparare la lingua del Bangladesh. Un suggerimento arrivato direttamente dal consolato della nazione asiatica.

Nel corso del servizio, il giornalista entrava in un negozio di articoli per neonati e bambini: passeggiando tra fasciatoi e carrozzine, il negoziante mostrava le réclame in bangladese. Mestre è definita “little Bangladesh”, e se fino a una quindicina di anni fa erano circa 1500 le persone bangladesi in città, nel 2016 il numero - come riportato dal Gazzettino- ha registrato un’impennata ben oltre le 5mila unità. E oggi addirittura sarebbe triplicato, superando quota 15mila. Le associazioni locali di bengladesi parlano addirittura, attorno a Venezia, di oltre 30mila originari di Dhaka, la capitale, e limitrofi. Eppure non tutti hanno preso bene l’iniziativa di questi commercianti. Sui social è un susseguirsi di commenti dubbiosi: si va dal «dovrebbe essere il contrario» (nel senso che dovrebbero essere gli stranieri a imparare l’italiano, non il contrario) al più veneto «che fine che avemo fatto».

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Per comprendere meglio la situazione, abbiamo conversato con l’europarlamentare leghista Anna Maria Cisint. L’ex sindaco di Monfalcone, che l’anno scorso ha pubblicato il volume “Ora basta. Immigrazione, islamizzazione, sottomissione” (Signs Book), non ci va giù leggera. «Mi piacerebbe vedere da parte degli italiani più spina dorsale - ci dice - nel rispondere all’offensiva islamica che punta a sostituirci. È per questo che io ho la scorta: perché combatto». L’esponente della Lega vede negli «islamici troppo spesso un atteggiamento di menefreghismo. Se ne fregano di integrarsi, piuttosto vogliono portare “casa loro” qui. Appena i numeri glielo permettono, pretendono di controllare le città, islamizzare e costringere commercianti, scuole e quei cittadini, che anche inconsapevolmente non se ne rendono conto e credono di essere “buoni e tolleranti”, a parlare la loro lingua e sottomettersi alle regole dell’islam, come se fossimo noi in Bangladesh».

Il senatore veneziano di Fratelli d’Italia, Raffaele Speranzon, è d’accordo: «In alcune zone di Mestre la loro presenza è notevolissima. Detto questo, non credo sia necessario imparare il bangladese. Ci sono alcune strade, nella zona sud di Mestre come nel quartiere Marghera, dove non andrei a fare campagna elettorale, perché lì il 90% delle persone che incontri per strada non sono nostri connazionali, non riuscirebbero a capire neanche che cosa c’è scritto sui volantini, perché non sanno l’italiano», spiega Speranzon. «Spesso questi stranieri vengono da ambienti dove non si parla la nostra lingua, una situazione che può creare problemi per esempio a scuola, dove i ragazzini che vivono in queste realtà a volte rallentano il programma didattico.

Da queste parti moltissimi bengladesi lavorano nel campo del turismo e alla Fincantieri: questo ha portato alla mutazione di intere parti delle nostre città. Noi dobbiamo lavorare - aggiunge il senatore - per gestire l’immigrazione già presente, trasformando questi immigrati in cittadini: così riusciremo a creare una giusta convivenza. Un po’ come hanno fatto gli americani tra ’800 e ’900». E mentre per vendere un gelato o una culla a Mestre serve sapere qualche parola di bengladese, ci viene in mente l’album di Elio e le Storie Tese del 1989, dal titolo Elio Samaga Hukapan Kariyana Turu. Quella volta fu usato il singalese, ma per capirne il significato vi invitiamo a usare il traduttore: di più non possiamo fare.

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