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Spesso l'antipatia è solo negli occhi di chi guarda

Ciò che ci infastidisce negli altri ha più a che fare con noi stessi che con loro
di Steno Sari martedì 7 ottobre 2025

2' di lettura

L’antipatia è un sentimento strisciante, tanto diffuso quanto poco indagato. Non è odio, non è invidia, eppure può segnare relazioni, carriere e intere esistenze. Essere antipatici – o essere percepiti come tali – può diventare una condanna sociale. Ma da dove nasce questo rifiuto istintivo verso un altro? Spesso ha origine in un meccanismo di difesa: ciò che è diverso, ciò che sfugge al nostro controllo o non rientra nei nostri schemi cognitivi, genera diffidenza.

Così, una persona troppo silenziosa in una riunione, troppo espansiva a una cena, troppo rigida in classe o troppo eccentrica in pubblico può risultare “antipatica” a pelle, senza alcuna ragione oggettiva.
Dal punto di vista psicologico entra in gioco il cosiddetto “effetto alone inverso”: un singolo tratto – una voce nasale, uno sguardo sfuggente, un sorriso forzato, un comportamento poco conforme – può contaminare la percezione dell’intera persona. $ un bias cognitivo potente, che agisce soprattutto nella prima impressione, e che tende a cristallizzarsi se non abbiamo il tempo o la volontà di conoscere davvero bene l’altro. Le società altamente competitive o rigidamente gerarchiche favoriscono un clima in cui l’antipatia diventa uno strumento di esclusione per comportamenti percepiti come “fuori contesto”. Chi non rispetta i codici non scritti – nel linguaggio, nell’abbigliamento, nei modi – può provocare disagio, anche involontariamente.

Contrastare l’antipatia non significa fingere che le divergenze non esistano, ma riconoscere che ogni reazione emotiva ha una radice e che spesso ciò che ci infastidisce negli altri ha più a che fare con noi stessi che con loro. Una postura che ci sembra arrogante può urtare una nostra insicurezza. Un modo di parlare troppo diretto può toccare un nostro vissuto.

NON SI PUÒ PIACERE A TUTTI

La psicologia sociale propone un’alternativa concreta: coltivare l’empatia cognitiva. Non si tratta di sentire quello che l’altro prova, ma di provare a vedere il mondo con i suoi occhi. Chiedersi: qual è la sua storia? Da dove arriva? Perché agisce così? Questo tipo di empatia non è un moto emotivo, ma una pratica consapevole, che richiede tempo, attenzione e soprattutto sospensione del giudizio. Certo, non possiamo piacere a tutti. Ma possiamo evitare di peggiorare dinamiche già tese con atteggiamenti istintivi. Essere chiari, coerenti e rispettosi non è solo un dovere morale: è un investimento etico. Lasciamo l’altro libero di avere le sue opinioni, senza fargli sentire il peso del nostro giudizio. Riconoscere che l’antipatia spesso riflette le nostre paure, le nostre rigidità o le nostre esperienze irrisolte ci restituisce un potere silenzioso. Non quello di cambiare gli altri, ma – più difficile e più utile – quello di trasformare la qualità della nostra presenza. Chi comprende sceglie di non reagire con la stessa durezza di chi ferisce. E' un gesto sottile, invisibile, che spezza la catena dei giudizi. Perché dove l’antipatia divide, la comprensione ricuce e ci insegna che la vera forza è nella gentilezza che resiste.

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