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Baby Gang: quando Marilyn Manson schiaffeggiò il politicamente corretto 

di Marco Petrelli mercoledì 16 febbraio 2022

4' di lettura

1999. Oltre vent’anni prima che in Italia (e non solo) diventasse virale il triste fenomeno della criminalità minorile, un episodio drammatico aveva sconvolto l’opinione pubblica internazionale: il massacro alla Columbine High School. 

Tredici morti e ventiquattro feriti, colpiti dalle armi degli studenti Eric Harris e Dylan Klebold vittime di bullismo (molto diffuso nei licei americani ben prima dell’invenzione dei social), che avevano deciso di “pareggiare i conti” facendo strage dei compagni di scuola.

Una “soluzione” estrema e ben pianificata, nei minimi dettagli. Una mattanza entrata di prepotenza nella cultura pop a stelle e strisce, tanto da essere evocata persino in una serie tv cult quale American Horror Story. 

Ed un maestro delle scenografie dell’orrore, del pallore vampiresco e degli sfondi infernali, Marilyn Manson (al secolo Brian Hugh Warner), fu raggiunto da una troupe televisiva poche settimane dopo la strage. Il network voleva sapere se il cantante si sentisse corresponsabile del massacro, poiché i due studenti erano suoi fan e quelle canzoni, pregne di atmosfere dark, secondo alcuni avevano influenzato lo scellerato gesto. 

Manson, naturalmente, negò che la sua arte potesse essere stata ispiratrice del dramma. E non tanto per evitare d’essere messo alla gogna dai media e dalle associazioni dei genitori, quanto perché l’arte è di per sé innocente. Anche se richiama al lugubre, alla morte, al gore: ci sarà un motivo se si chiama shock rock. Già, perché come accennato è tutto finto, scenografie e sfondi di cartone, cerone sul volto, litri di liquido rosso usati da abili make up artist per trasformare una star con un passato da seminarista, in un diavolo fatto persona. 

Finzione, dunque, come finti erano i canini del Dracula di Christopher Lee, come finto era il paletto che il Peter Cushing/Van Helsing infilava nel cuore dei non morti. 

Chi scrive è un appassionato di horror, specie gotico, seppure non abbia mai amato Manson e le sue canzoni. Le divergenze in fatto di gusti musicali non impediscono tuttavia di essere obiettivi: quale sarebbe la colpa di Manson riguardo ai fatti della Columbine?

Lui, che dalla bomb shell Marilyn e dal serial killer hippie Charles Manson aveva ispirato il suo nome d’arte, rispose a quella emittente una cosa che forse nessuno aveva pensato oppure no, l’aveva pensata ma senza avere il coraggio di dirla ad alta voce:

“Cosa avrei fatto, mi chiedete? Avrei ascoltato cosa avrebbero avuto da dire”

Uno schiaffo al politicamente corretto, a quei genitori prodighi nel manifestare la loro rabbia e le loro preoccupazioni dopo un brutto fatto di cronaca, ma fino ad un attimo prima assenti dalle vite dei figli. Columbine docet. Nel lungo lasso di tempo in cui Harris e Klebold programmarono il loro folle piano, infatti, nessuno ebbe sospetti. Tantomeno si interessò di quelle piccole tracce, di quelle sfumature di cui erano impregnati i testi dei temi, le video cassette registrate per documentare i progressi organizzativi né il diario iniziato da Klebold, pare, nel 1997. Senza contare l’arsenale: semiautomatiche, fucili a pompa e d’assalto acquistati senza che alcuno se ne accorgesse. 

Nessuno: amici, compagni, professori e, ancor più sconvolgente, mamma e papà. 

Si disse allora che il movente della strage fosse il bullismo. In realtà è più plausibile si trattasse dell’indifferenza, da quella famigliare a quella del contesto sociale di fronte a forme di prepotenza e di sopruso talvolta tollerate dagli altri compagni, altre ignorate da chi invece avrebbe dovuto vigilare. Seguono l’emarginazione e la solitudine, la mancanza di stimoli e di esempi. 

Se la Columbine ha rappresentato l’apice della follia, casi “minori” come portata (ma altrettanto gravi) contribuiscono a mostrare le pesanti responsabilità del mondo degli adulti. 

Nel corso dei funerali dei giovani uccisi da una dose di metadone a Terni, un intervistato puntò il dito contro i cantanti rei - a suo avviso - di lanciare messaggi sbagliati. Rieccoci: la musica è colpevole di comportamenti deviati, border line. Non lascia basiti e preoccupati il fatto che un poco più che adolescente abbia così facile accesso alle droghe, magari nel parco sotto casa dove gioca sin da bambino.

No, è la musica la colpevole. 

Quando i media affrontarono il caso Genovese, nessuno si domandò come mai ragazze appena maggiorenni frequentassero feste o andassero in vacanza in compagnia di uomini facoltosi e molto più grandi. Non che la cosa sminuisca o giustifichi un atto disumano e criminale come lo stupro, ma la domanda sorge spontanea: un padre, da uomo, pensa davvero che ricchi maturi amino circondarsi di ragazze per pura generosità?

L’assenza del controllo inteso come attenzione rivolta ai figli ed una generale immaturità degli adulti, priva le giovani generazioni di una guida, di esempi da seguire. Esempi che non può dare la sola Scuola, ormai depauperata dei mezzi e dell’autorevolezza necessari a formare il cittadino del domani. A questo si aggiungono politiche troppo permissive e l’assenza di una legislazione adeguata a contrastare fenomeni delinquenziali minorili. 

“Va di moda essere criminali” ammettono, col volto coperto, i giovanissimi intervistati dalle telecamere di Fuori dal Coro. Ma va là! Semmai va di moda aver capito che nel nostro Paese gli adulti sono autentici bambocci: non controllano, hanno paura di applicare punizioni (in famiglia o nelle aule di tribunale) e, soprattutto, sono abituati a cercare spiegazioni fantasiose per interpretare il comportamento dei figli. 

Della mia generazione in tanti abbiamo ascoltato Manson; a chi scrive, personalmente, è piaciuta solo la cover di Tainted Love. Ma a nessuno, fan scatenato od occasionale, è venuto in mente di diventare satanista. Santi forse non lo siamo stati, ma di certo non siamo diventati diavoli ed assassini. 

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