La strana metamorfosi della pasionaria che ha dettato la crisi di governo

Come trasformare il Senato in una Taverna

Francesco Specchia

«Oggi li sfonnamo de brutto!». Li sfonnamo. Li mortacci sua. Ahò. Eccetera. 

Così, tutta presa in una raffinata analisi tecnica della crisi e con una prosa rispettosa degli avversari politici e della cornice di Palazzo Madama, Paola Taverna veniva spietatamente dipinta da Fabrizio Roncone sul Corriere della sera. Fabrizio resocontava sugli sghignazzi, i sorrisi, i rutti istituzionali con cui i 5 Stelle plaudivano al killeraggio di Draghi, seppur inconsapevoli del fatto di stare apparecchiando la loro stessa tomba. Uno spettacolo tristissimo.

Ma è proprio lì, nel sarcasmo della Taverna – la quale, smesso l’abitino da vicepresidente del Senato è tornata a parlare come in un film di Bombolo- ; è lì che, nei cronisti, a quel punto, sorgeva l’interrogativo. Perché mai l’avrà fatto? Com’è riuscita la Taverna che era la testa di ponte dell’ala oltranzista, a convincere il mentore Conte (maestro del galleggiamento, «uno che ragiona da sughero» come dice Maurizio Gasparri) a buttare a mare tutto il lavoro e il lavorio d’una vita? La politica è davvero una taverna, con dei tipacci al bancone e un pugno di bari sparsi tra i tavoli. 

E la Paola Taverna, diamine, era riuscita a smarcarsi da un destino pasoliniano, da lei sempre astutamente descritto come pietra di paragone del proprio riscatto. L’appartamento di cinquanta metriquadri nella borgata di Torre Maura da dove si respirano gli umori del “popolo”; il padre morto per un aneurisma alla orta, che lei aveva appena diciassette anni; il diploma di perito aziendale e corrispondente in lingue estere e il primo lavoretto da grafica editoriale; e il secondo come segretaria in un poliambulatorio per le analisi cliniche; l’accidentata maternità; l’incontro col grillismo da barricadera spinta; la doppia elezione dalle viscere del popolo tutt’altro che fregnone. Tutto, nella narrazione della Taverna era –per dirla con Rino Formica- sangue e merda. Sangue, merda, e polvere da sparo. 

Era talmente immersa, Paola, nell’odio per i parlamentari che, nel 2013, dall’emiciclo di Palazzo Madama gridava ai colleghi, peraltro alleati: «Gnente! Siete gnente!», dimenticandosi di essere ella stessa parte di quel “gnente” parlamentare. Ma il suo era un riflesso antisistema  pavloviano. Lo stesso silenzio imposto di quando, eletta, vietò, in un servizio delle Iene, di chiamarla “senatrice”. «Ma, scusi, senatrice, lei è senatrice…», risposero quei carognoni dei ragazzotti in nero, facendole notare il lauto stipendio che il ruolo le concedeva. Mortacci loro. La senatrice si rinchiuse in uno stizzito silenzio che neanche Zaccagnini. 

Il medesimo silenzio opposto alla risposta che un medico donna anestesista diede al furore antivaccinista della pentastellata: «Cara senatrice, per fare il mio lavoro occorrono anni di studio, per il suo basta prendere i voti, Parlare sui social, Avere fortuna. Essere nel momento giusto con le persone giuste, al posto giusto. E questo non è giusto…». E Paoletta, che solo poche primavera aveva in tasca le stesse parole, be’, lì, chinò il capo. Certo, il fatto che avesse per tutta la vita apostrofato i politici come ladri e fancazzisti non giovava alla causa. Ma questa era la Taverna degli esordi, quella che andava in bici con Di Battista; che si vestiva con gli abiti sbagliati; che se ti avvicinavi troppo e parlavi e male della Roma e a le era rimasta la pajata della sera prima sullo stomaco, be’ capace che ti assestasse una craniata da staccarti il setto nasale.

Ecco. Quella era la Taverna naif, a spregiudicato uso di popolo. Negli ultimi anni, ascesa alla vicepresidenza del Senato e –di fatto- a braccio destro armato di Conte, per Paoletta era tutto cambiato. Un outfit più raffinato, per quanto rimanga un uso spregiudicato dei colori; una laurea in Scienze Politiche presa nei ritagli di tempo (almeno lei ce l’ha); incarichi istituzionali accumulati più di Di Maio; l’intervento, da vera “lei-non-sa-chi –sono –io” a favore della madre, una verace signora a rischio di sfratto dalla casa popolare in cui viveva, in quanto, parrebbe, «comproprietaria di immobili». Ogni sua nuova <CF2711>tranche de vie</CF> dava, insomma, l’impressione della sua perfetta integrazione nel sistema che aveva  preso a mazzate per un’intera esistenza. Comoda nel suo scranno, Taverna stava dunque raccogliendo i frutti di una luminosa carriera politica. Certo la popolarità borgatara era calata notevolmente, ma valeva lo scotto.

E allora, per tornare a bomba, perché puntare in modo così accanito, sull’assassinio politico di Draghi; e, conseguentemente, sul suicidio dei rimasugli di un Movimento Cinque Stelle che, una volta al voto verrà decimato dai suoi stessi elettori (me compreso)?

 C’è chi parla di richiamo ancestrale all’anima del popolo. Anche perché Taverna, al secondo mandato, come tutti i revenant “duri e puri” a 5 Stelle non potrà più rientrare in Parlamento. E allora, prima di andarsene a tornare a  fare la segretaria con laurea, meglio incendiare il Palazzo. Muoia Bombolo con tutti i filistei…